Lo certifica la Cgil
Quasi 6 milioni di lavoratori guadagnano meno di 850 euro netti al mese
2,4 milioni di lavoratori guadagnano meno di 5 mila euro annui
L'Italia ha il record europeo del precariato
I salari italiani sono miseri. Milioni di lavoratori guadagnano meno di mille euro al mese, una cifra assolutamente insufficiente per sostenere una vita dignitosa, un diritto enunciato pomposamente dalla nostra Costituzione ma nella realtà di tutti i giorni palesemente negato. Si dirà che si è scoperto “l'acqua calda” poiché la notizia non è certo nuova, ma leggere i numeri che vengono confermati da uno studio dell’Ufficio Economia dell’Area Politiche per lo Sviluppo della Cgil nazionale fa veramente impressione.
Sono stati messi a confronto i dati delle maggiori economie dell'Unione Europea: Germania, Francia, Spagna e Italia, quindi non ci sono neppure “nazioni ricche” come i Paesi Bassi o il Regno Unito, dove i salari sono notoriamente molto più alti dei nostri. Ciononostante, e considerando che l'Italia fa parte dei G7 (i “sette grandi”), dal punto di vista salariale siamo lontani anni luce da Germania e Francia, i nostri numeri sono invece molto simili a quelli della Spagna, storicamente tra i paesi più poveri dell'Europa occidentale.
Ebbene, nel 2022 il salario medio lordo italiano si è attestato a 31,5 mila euro annui, un livello nettamente più basso rispetto a quello tedesco (45,5 mila euro) e francese (41,7 mila euro) e di poco superiore a quello spagnolo (29,1 mila euro). Nello stesso anno risulta, rispetto al 2021, un aumento dei salari nominali medi in tutte e quattro le principali economie europee: Francia (+5,1%), Italia (+4,9%), Germania (+4,2%), Spagna (+3,0%). Se però consideriamo l'inflazione registrata da Eurostat nello stesso anno, Germania e Italia (+8,7%), Spagna (+8,3%) e Francia (+5,9%), l’aumento medio dei salari nominali è stato, in generale, ampiamente insufficiente a compensare l’aumento del costo della vita.
Pertanto, tra i salari italiani e quelli tedeschi e francesi permane un ampio divario sia per il livello salariale medio di partenza dell’Italia (più basso) che per l’inflazione (più alta). Perciò è pretestuoso tirare in ballo il rischio di una spirale che aumenti i prezzi per giustificare dei salari così bassi; l'attuale aumento dell'inflazione, almeno in Italia, è dovuto in larghissima parte all'innalzamento dei profitti e alla speculazione.
Un altro dato significativo è quello sulla tendenza generale. Tra il 1992 e il 2022, i salari reali medi tedeschi e francesi hanno registrato una crescita molto sostenuta (rispettivamente +22,9% e +31,6%) mentre quelli italiani e spagnoli si sono contraddistinti per una stagnazione di lungo periodo registrando, rispettivamente, una diminuzione (-0,9%) e una variazione nulla (0,0%). Altri dati smentiscono un'opinione comune, quella in cui nei paesi mediterranei si lavori meno che nel resto d'Europa. Nel 2022, secondo i dati OCSE, le ore medie lavorate annualmente dai lavoratori dipendenti in Italia sono state 1.563, un numero pari a quello della Spagna ma decisamente più alto di quello osservato in Germania (1.295 ore) e in Francia (1.427 ore).
Dalla lettura congiunta, da un lato, delle ore lavorate e, dall’altro, della quota salari sul PIL desunta dalla banca dati macroeconomica della Commissione Europea (AMECO), emerge come in Italia, benché si lavori comparativamente di più, la quota di reddito destinata a remunerare il lavoro dipendente tramite i salari sia notevolmente più bassa, perfino della Spagna. Una dato che conferma come la cosiddetta “redistribuzione” della ricchezza, prodotta in ogni caso interamente dai lavoratori, nel nostro paese è ancor più sbilanciata a favore dei capitalisti e dei padroni. La quota salari in Francia rappresenta il 59% del PIL, in Germania il 57%, in Spagna il 55,4%, mentre l'Italia è il fanalino di coda con il 52%.
Se andiamo più nello specifico vediamo come i salari dei dipendenti privati siano ancora più bassi di quelli pubblici. Nel 2022 i 16.978.425 lavoratori hanno percepito un salario medio di 22.839 euro lordi annui. Si è trattato di un aumento salariale nominale medio del +4,2% rispetto al 2021 (+911 euro lordi annui), nettamente inferiore all’inflazione del 2022. Il reddito, per compensare la perdita inflazionistica, si sarebbe dovuto attestare a 23,8 mila euro lordi annui, cioè circa mille euro in più rispetto a quanto percepito mediamente.
La ricerca fa poi un ulteriore divisione in 8 tipologie, che vanno dai contratti a termine, part-time e discontinui (salario lordo medio annuo di 6.267 euro) fino a quello indeterminato, a tempo pieno per tutto l'anno (salario medio 37.360 euro). Le tipologie contrattuali a diffuso precariato riguardano ben 5 milioni e 700mila lavoratori (uno su tre) che percepiscono meno di 10mila 800 euro lordi, che al netto sono meno di 850 euro mensili, e ben 2,4 milioni guadagnano meno di 5mila euro annui.
Nel settore pubblico si alza il salario, che mediamente si attesta a 34.143 euro per i circa 3 milioni e 700mila lavoratori. Ma anche qui dobbiamo sfatare un altro luogo comune, quello del posto fisso, visto che il 17,2% ha un rapporto di lavoro precario e intermittente. Questo comporta che questi 640mila dipendenti pubblici abbiano un reddito lordo annuo medio di soli 15mila e 400 euro.
L'Italia si fregia anche di un altro record negativo, quello del precariato e della discontinuità lavorativa. Nel 2022, i rapporti con una durata massima di 365 giorni sono stati l’82,5%, e ben il 50% della durata inferiore a 90 giorni, mentre quelli con una durata superiore all’anno sono stati appena il 17,5%. Questo fa si che oltre 10 milioni di lavoratori (su un totale di 20,7 milioni) non abbia un lavoro stabile e a tempo pieno per tutto l'anno.
Questi dati impietosi in parte sono dovuti alla particolare struttura dell'economia italiana, basata sulle piccole e piccolissime aziende, ma anche alla scelta dei capitalisti nostrani di puntare tutto sulla compressione del “costo del lavoro” per essere competitivi sul “libero mercato”. Tuttavia questo spiega solo in parte i bassi salari, come ammette la Cgil nella sua ricerca. Le cause principali del divario con le maggiori economie europee sono la “precarietà, discontinuità, part-time involontario, basse qualifiche e gravi ritardi nel rinnovo dei contratti”.
La Cgil però dovrebbe autocriticarsi perché assieme a Cisl e Uil per decenni ha assecondato governi e padroni nella “politica dei redditi” e nella moderazione salariale, chiedendo ai lavoratori sacrifici a senso unico che hanno portato alle stelle i profitti mentre i salari reali si sono ridotti creando quel divario che adesso tutti sembrano vedere. Solo adesso la Cgil si accorge dell'emergenza salariale in Italia? E in ogni caso perché non trae le dovute conseguenze?
27 marzo 2024