I nazisionisti non vogliono testimoni del massacro a Gaza
Pronto ad attaccare Rafah, Netanyahu chiude al Jazeera
Al tavolo negoziale il governo di Tel Aviv pretende la resa della resistenza palestinese mentre prepara l'attacco a Rafah
La Colombia rompe le relazioni diplomatiche e la Turchia sospende le relazioni commerciali con Israele.
Secondo una fonte araba riportata il 5 maggio da Sky news Arabia
, la bozza di accordo mesa a punto nei negoziati al Cairo, che da mesi viene venduta come a un passo dall'essere approvata mentre i nazisionisti continuano nel genocidio a Gaza, è "la migliore" dall'avvio dei negoziati e la sua "accettazione è imminente" non solo per un nuovo scambio fra ostaggi e prigionieri ma addirittura per porre fine alla guerra. L'azione congiunta dei negoziatori egiziani e qatarioti, sotto la regia degli Usa, sembrava arrivata a un passo dalla firma da parte dei sionisti di Tel Aviv e di Hamas di una intesa. Tuttavia, precisava la stessa fonte, ci potrebbe essere la possibilità che "entrambe le parti possano fare una svolta di 180 gradi e tornare al punto di partenza". Siamo quindi all'ennesimo atto della farsa messa in scena dall'imperialismo per indurre alla resa la resistenza palestinese dato che alla ovvia richiesta di Hamas di avere in cambio degli ostaggi la fine della guerra nella Striscia, il ritiro delle truppe sioniste da Gaza e il cessate il fuoco permanente i criminali naziosionisti rispondevano con un ultimatum, accettare la più "generosa" offerta negoziale entro una settimana pena l'attacco di terra a Rafah. Anzi, secondo il boia Netanyahu "accordo o non accordo attaccheremo Rafah", ossia il macello palestinese a Rafah ci sarà in ogni caso per completare l'obiettivo nazisionista di liquidare Hamas da Gaza. Una posizione che avrebbe fatto saltare il tavolo negoziale del Cairo se il segretario di Stato americano Antony Blinken non avesse replicato che "le persone dicono cose ma concentriamoci piuttosto su quello che fanno, e su quello che stiamo facendo noi". In due parole ha dato del pagliaccio a Netanyahu e offerto la garanzia degli Usa, che comunque non sono affatto neutrali ma parte direttamente in causa a sostegno dei nazisionisti, sul rispetto della possibile intesa nelle parti che interessano a Hamas. Vedremo. Intanto il regime sionista ha imposto la chiusura delle trasmissioni a al Jazeera
perché non vuole testimoni del massacro a Gaza e in particolare a quello che sta preparando nel sud della Striscia dopo che la mattina del 6 maggio l'esercito occupante ha lanciato volantini nella parte est di Rafah per "invitare" circa 100 mila degli oltre un milione di profughi presenti a spostarsi verso altre zone e ha bloccato il passaggio dei camion degli aiuti.
Il governo sionista decideva all'unanimità il 5 maggio la chiusura di tutte le attività della rete qatariota al Jazeera
in applicazione della legge approvata dal parlamento di Tel Aviv lo scorso 1 aprile per oscurare temporaneamente l'attività dei media stranieri ritenuti una minaccia alla sicurezza nazionale, ossia non allineati con le veline di regime come quasi tutti i principali gli organi di informazione dei paesi imperialisti occidentali impegnati a coprire la guerra di genocidio dei nazisionisti a Gaza e in Cisgiordania. E infatti protestava solo l'Onu, l'Ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani, che su X sprimeva il rammarico per "la decisione del governo di chiudere Al Jazeera in Israele. Media liberi e indipendenti sono essenziali per garantire trasparenza e responsabilità. Ora ancora di più, date le rigide restrizioni sulle notizie da Gaza. La libertà di espressione è un diritto umano fondamentale. Esortiamo il governo a revocare il divieto".
Il provvedimento sionista vale per 45 giorni e riguarda le trasmissioni del canale in arabo, in lingua inglese e via internet e messo in pratica dal sequestro e dal sigillo delle attrezzature dell'emittente nella stanza d’albergo di Gerusalemme, la sede principale dopo che il palazzo deve era la sede a Gaza, assieme alla Associated Press, era stato distrutto dalle bombe sioniste già il 15 maggio del 2021. “Questo - scriveva Hani Mahmoud, un giornalista delle rete qatariota che sta lavorando a Rafah - è l'ultimo episodio di quella che sembra essere la soppressione di qualsiasi critica a ciò che sta accadendo sul terreno in tutta la Striscia. Abbiamo documentato le atrocità, gli atti di genocidio, la diffusione della carestia e gli atti che vanno contro il diritto internazionale e i diritti umani, e contro tutte le norme internazionali in termini di conduzione di guerre; questo non è piaciuto al governo israeliano. Il divieto è percepito dalla gente qui come un modo per sopprimere questa voce che ha amplificato le voci degli oppressi e delle persone sotto occupazione. Una mossa disperata per impedire un'equa copertura sul campo”. Il capo della redazione di Gerusalemme ricordava anche che negli ultimi 7 mesi “ci sono stati più di 50 attacchi a giornalisti di al Jazeera
”, con morti e feriti. Nello stesso periodo sono stati almeno 142 gli operatori dei media uccisi dai nazisionisti a Gaza e Cisgiordania che non vogliono testimoni imparziali a documentare i loro crimini di guerra.
In Cisgiordania a fianco della rappresaglia nazisionista scendeva la polizia dell’Autorità nazionale palestinese, l'Anp del presidente Abu Mazen, che la notte dell'1 Maggio era impegnata in "operazioni di sicurezza" nel campo profughi di Tulkarem e uccideva un giovane militante del Jihad islami.
In attesa dei sempre più precari sviluppi del negoziato tra il Cairo e Doha registriamo quanto avvenuto nella scorsa settimana a partire dall'importante decisione della Colombia di rompere le relazioni diplomatiche e della Turchia di sospendere le relazioni commerciali con Israele.
Lo annunciava l'1 Maggio il presidente colombiano Gustavo Petro definendo il governo di Netanyahu “genocida” per la guerra nella Striscia di Gaza. “Domani romperemo le relazioni diplomatiche con lo stato d’Israele a causa del suo governo genocida”, annunciava Petro in un discorso tenuto a Bogotá, "non possiamo accettare lo sterminio di un intero popolo, se muore la Palestina, muore l’umanità”.
Il presidente colombiano aveva già sospeso l’acquisto di armi prodotte in Israele, uno dei principali fornitori dell'esercito del paese sudamericano, e si è unito alla Bolivia e al Belize che avevano già rotto le relazioni diplomatiche con Tel Aviv.
Il ministro degli esteri sionista Israel Katz, che non può nascondere il fatto accertato dei 35 mila palestinesi uccisi a Gaza e quindi il genocidio in atto, ricorreva all'oramai abusata distribuzione della patente di "antisemita", dedicata dall'Onu in giù a tutti quelli che non si inginocchiano davanti ai criminali nazisionisti, appioppandola anche al presidente colombiano. Che invece riceveva l'apprezzamento della resistenza palestinese; il movimento islamico Hamas in un comunicato ringraziava Petro e definiva la posizione presa dalla Colombia "una vittoria per i sacrifici del nostro popolo e la sua giusta causa", invitando altri paesi dell'America Latina a rompere le relazioni con Israele.
Il 2 maggio era la volta del ministero del Commercio turco ad annunciare che "le esportazioni e importazioni nei confronti di Israele sono state sospese" e a precisare che "la Turchia applicherà queste nuove misure fino a quando il governo israeliano non autorizzerà un flusso ininterrotto di aiuti umanitari a Gaza". "La pazienza con Israele è finita, è il momento di agire", dichiarava il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, "gli ultimi sviluppi delle operazioni militari di Israele a Gaza non sono accettabili. Per questo riteniamo fosse necessario compiere questo passo". "Sono stati uccisi tra i 40 e i 45 mila civili innocenti con la complicità dell'Occidente e in particolare dell'America. Ora la pazienza è finita e abbiamo preso questo provvedimento. Lo scambio commerciale con Israele ammontava a 9,5 miliardi di dollari, per noi non cambia nulla rinunciarvi, la porta è chiusa", ribadiva Erdogan precisando che lo stop all'import e all'export andrà avanti fino a quando non ci sarà un cessate il fuoco e alla popolazione non sarà garantito accesso agli aiuti umanitari. Il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan aggiungeva il 5 maggio che per non "far esplodere il conflitto in tutta la regione Israele deve accettare una Palestina nei confini del 1967 e non si tratta di Hamas, si tratta di una soluzione per tutti i palestinesi" e ribadiva la decisione del goerno di Ankara di affiancare il Sud Africa nella causa per genocidio intentata contro Israele e invitava altri Paesi ad unirsi nel processo alla Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja.
La sospensione delle forniture militari a Israele, una delle richieste della protesta nelle università americane, era proposta da un gruppo di quasi un centinaio di avvocati, una parte dei quali lavorano per l’amministrazione della Casa Bianca. In una lettera inviata a presidente Biden denunciavano che la violenza con la quale l'esercito di Israele sta distruggendo l’enclave palestinese di Gaza potrebbe costituire anche una violazione del diritto umanitario statunitense e internazionale; una violazione del diritto umanitario internazionale già ventilata per altri paesi imperialisti come la Germania, che vergognosamente sostiene a occhi chiusi i nazisionisti nel genocidio palestinese, ma che non presenta alcun pericolo per l'imperialismo americano che impunito dopo i massacri in Iraq non ha certamente problemi a neutralizzare una eventuale denuncia alla Corte penale dell'Aja, che tiene sotto controllo. Resta da parte della presa di posizione del gruppo degli avvocati americani, come nel caso della denuncia alla Corte del genocidio palestinese da parte del Sudafrica, l'importanza politica del gesto contro i nazisionisti.
Registriamo infine due denunce. Una da parte della sezione palestinese di Defense for Children International (DCI), un'organizzazione internazionale non governativa attiva dal 1979 per tutelare i diritti dell’infanzia come definiti nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia (UNCRC), che elaborando i dati diffusi dal Servizio carcerario israeliano ha denunciato la vergogna del numero record di bambini palestinesi incarcerati dagli occupanti: "61 bambini sono attualmente detenuti dalle forze israeliane senza accusa o processo, pari a circa uno su tre di tutti i bambini palestinesi detenuti”. Sono in "detenzione amministrativa", quello "strumento crudele usato dall’esercito israeliano per detenere i palestinesi, compresi i bambini, sulla base di 'accuse segrete' non presentate ad essi o ai loro avvocati per un periodo rinnovabile fino a sei mesi”, denunciava il DCI.
La seconda denuncia è del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) il cui responsabile per il Medio Oriente ricordava che a Gaza "il 72% degli edifici residenziali è stato completamente o parzialmente distrutto" dall'azione sistematica di demolizione programmata dai nazisionisti che non ha risparmiato ospedali, scuole e chiese, tanto che "la portata della distruzione è enorme e senza precedenti, questa è una missione che la comunità internazionale non affrontava dalla Seconda Guerra Mondiale". Lo smaltimento dei quasi 40 milioni di tonnellate di macerie causate dai bombardamenti, la bonifica delle bombe inesplose e la ricostruzione, secondo l'Undp dureranno fino al 2040 a meno che non vada in porto il piano dei nazisionisti di deportazione dei profughi palestinesi in altri luoghi per far sì che le terre fertili di Gaza siano occupate dai coloni. Come preconizzava uno dei padri della politica di pulizia etnica sionista, Yosef Weitz, che già nel novembre 1940, incaricato dall’Agenzia Ebraica, (il governo sionista di fatto) otto anni prima della fondazione di Israele, quale capo del “Comitato per i Trasferimenti” della popolazione lcale dalla Palestina scriveva: "deve essere chiaro che nel Paese non c’è spazio per entrambi i popoli. Se gli arabi se ne vanno, il Paese diventerà ampio e spazioso per noi. L’unica soluzione è una Terra senza arabi. Qui non c’è spazio per i compromessi. Non c’è altro modo che trasferire gli arabi da qui ai Paesi vicini, Non deve essere lasciato un solo villaggio, nessuna tribù. Non c’è altra soluzione”.
Al 6 maggio il bilancio aggiornato del genocidio palestinese contava 34.735 morti, 78.108 feriti, in gran parte donne e bambini, e un numero imprecisato di dispersi.
8 maggio 2024