Presentato alla Commissione europea
Il piano Draghi per fare dell'Ue una superpotenza a pari di Usa e Cina
Per raggiungere gli obiettivi occorre un versamento aggiuntivo di 800 miliardi l'anno. Al centro la difesa, cioè l'esercito europeo
Competitività industriale, commerciale e militare dell'imperialismo europeo
Il mondo è cambiato e l'Europa sta perdendo la sfida con gli Stati Uniti e la Cina. Essa si trova di fronte a una “sfida esistenziale”, e se vuole evitare una “lenta agonia” ed essere una superpotenza che compete alla pari con le altre due deve accettare di “cambiare radicalmente”. Pertanto, per recuperare la competitività perduta e ricominciare a crescere, deve puntare sull'aumento della produttività e su tre aree strategiche, che sono l'innovazione, la decarbonizzazione, con la riduzione dei costi energetici, e la sicurezza, ovvero l'aumento della spesa militare per creare un vero e proprio esercito europeo, nonché la messa in sicurezza delle catene di approvvigionamento delle materie prime essenziali e delle tecnologie di frontiera, come l'intelligenza artificiale (IA). Tutto ciò richiede un gigantesco piano di investimenti da 800 miliardi l'anno, con un'ingente “mobilitazione” anche del risparmio delle famiglie, e una riforma della governance politica della Ue per sveltire le decisioni da prendere.
Questo in estrema sintesi il contenuto del rapporto sulla competitività europea che gli era stato richiesto un anno fa dalla presidente Ursula von der Leyen e che Mario Draghi ha presentato il 9 settembre alla Commissione europea e il 17 settembre al parlamento europeo. Si tratta di un corposo documento di circa 400 pagine di analisi e proposte dettagliate, sintetizzato nelle sue linee generali in un compendio di 62 pagine suddiviso in 6 capitoli.
Il declino dell'Europa e la favola della “produttività legata all'inclusione”
In premessa il rapporto cita il venir meno di tre condizioni esterne che hanno sostenuto la crescita europea dopo la fine della “guerra fredda”: la liberalizzazione del commercio mondiale, che aveva favorito le esportazioni europee, l'energia a basso costo assicurata dal gas russo prima dell'invasione dell'Ucraina e l'ombrello militare della Nato, che aveva consentito di disporre di risorse altrimenti da destinare all'aumento delle spese militari. Inoltre l'Europa “si è lasciata sfuggire la rivoluzione digitale” e i relativi aumenti di produttività, tanto che solo 4 delle prime 50 aziende tecnologiche mondiali sono europee e il divario di innovazione con Cina e Usa è cresciuto: il deficit di investimenti nell'innovazione con gli Usa è di 270 miliardi di euro, e negli ultimi 50 anni nessuna azienda con oltre 100 miliardi di capitalizzazione è stata creata in Europa, contro le 6 da oltre 1.000 miliardi create nello stesso periodo negli Stati Uniti.
Inoltre il 30% delle start-up innovative europee da oltre 1 miliardo si è trasferito negli Usa. E dal 75 al 90% dei chip necessari allo sviluppo dell'economia digitale e dell'Intelligenza Artificiale (IA) viene prodotto in Asia. In pratica gli Stati Uniti attraggono le migliori e più innovative aziende europee e la Cina si assicura il controllo delle catene di materie prime critiche, mentre l'Europa è tagliata fuori da entrambi i settori.
Per quanto riguarda l'energia, l'Europa fino al 2021 si affidava al gas russo per il 45%, ed attualmente solo per il 20%, e deve pagare il gas naturale importato ad un prezzo 4-5 volte più alto degli Usa e pagare l'elettricità 2-3 volte tanto. Senza contare che l'Europa non acquista il gas come un acquirente unico ed è eccessivamente dipendente dalla volatilità del suo prezzo sul mercato.
A questi fattori negativi si aggiunge il pesante calo demografico, sicché per la prima volta in Europa la crescita non sarà sostenuta da un aumento della popolazione, dato che entro il 2040 si prevede una riduzione di 2 milioni di lavoratori all'anno; per cui, ne conclude Draghi, “dovremo puntare maggiormente sulla produttività per guidare la crescita”. Evidentemente il banchiere massone dà per scontato il non ricorso all'aumento dell'immigrazione, in un'Europa sempre più razzista e xenofoba e impegnata ad alzare istericamente barriere in tutto il continente e a foraggiare governi dittatoriali in Africa per bloccare i flussi dei migranti.
Naturalmente è reticente anche su come dovrebbe essere conseguito questo aumento di produttività, facendolo discendere magicamente solo dall'aumento delle “competenze” e della qualificazione della mano d'opera, per nascondere la verità del necessario aumento dello sfruttamento. Secondo la sua ricetta fantasiosa, infatti, l'approccio europeo “deve garantire che la crescita della produttività e l'inclusione vadano di pari passo”, in modo da mantenere i “valori fondamentali dell'Europa”, che sono “la prosperità, l'equità (sic), la libertà, la pace e la democrazia in un ambiente sostenibile”. Non a caso svela gli inconfessabili altarini quando suggerisce un patto sociale corporativo “che unisca sindacati, datori di lavoro e attori della società civile per costruire il consenso necessario a promuovere i cambiamenti. La trasformazione può portare alla prosperità per tutti (sic) solo se accompagnata da un forte contratto sociale”. Nel quadro dell'aumento delle competenze rientra anche la riproposizione di una sua vecchia proposta di riforma neoliberista del sistema dell'istruzione, “oggi declinante in Europa”, orientata alla formazione tecnico-professionale immediatamente spendibile sul mercato del lavoro e direttamente coordinata alle esigenze delle aziende e del mercato delle nuove tecnologie.
Un “approccio pragmatico alla decarbonizzazione”
Per reagire a questi fattori negativi e tornare competitiva rispetto a Usa e Cina – sottolinea il rapporto - oltre che sull'innovazione e l'aumento di produttività l'Europa dovrebbe puntare soprattutto sulla decarbonizzazione e sulla sicurezza, a cominciare dalla difesa. Nell'impossibilità di fatto di una riduzione consistente del prezzo del gas, salvo il palliativo della proposta dell'acquisto in comune, e in attesa che le energie rinnovabili arrivino a sostituire quelle fossili azzerando il gap energetico con gli Usa, l'Europa dovrebbe avere un “approccio pragmatico alla decarbonizzazione”, dice Draghi lisciando il pelo alle forze “sovraniste” insofferenti alla transizione verde adottata dalla Commissione europea (anche se alquanto ridimensionata dalla stessa von der Leyen), e in particolare al governo Meloni, tra i più refrattari nella Ue all'abbandono delle energie fossili.
Nella fattispecie il banchiere massone propone di abbassare i costi della decarbonizzazione, “che per la Ue è più ambiziosa” e quindi anche più costosa, con un “approccio tecnologicamente neutrale”, vale a dire mantenendo finché necessario (cioè sine die
) un mix di energie rinnovabili, nucleare, idrogeno, bioenergie e cattura di CO2. E puntando ad abbassare e sveltire le regole per le autorizzazioni dei parchi eolici e fotovoltaici, che oggi richiedono fino a 9 anni, senza curarsi eccessivamente del rispetto dell'ambiente. Quanto al settore auto, fortemente in crisi tanto che per la prima volta la Volkswagen ha annunciato la chiusura di stabilimenti, anche l'ultraliberista Draghi non ha di meglio da suggerire che la scontata ricetta protezionistica di evitare delocalizzazioni e acquisizioni da parte di attori esteri e di imporre forti dazi sui prodotti della concorrenza, come quelli che la Commissione ha messo sulle auto elettriche cinesi.
Il motore della “crescita” è l'aumento della spesa militare
Tutto ciò richiederà investimenti massicci, ma soprattutto lo richiederà l'aumento delle spese per la difesa e la creazione dell'esercito europeo, che anche per Draghi come per tutta l'élite politico-finanziaria-industriale dell'Ue è ormai il motore principale per trainare la crescita della superpotenza europea. “Il deterioramento delle relazioni geopolitiche crea anche nuove esigenze di spesa per la difesa e la capacità industriale di difesa”, sottolinea il rapporto, premettendo che il baricentro strategico-militare degli Usa si sta spostando verso “l'anello del Pacifico”, per cui sta all'Europa “colmare il vuoto”. Solo per raggiungere tutti il 2% del Pil delle spese militari il fabbisogno della Ue nel 2024 ammonterebbe a +60 miliardi, senza contare la ricostituzione delle scorte donate all'Ucraina. La Commissione stima che nel prossimo decennio “saranno necessari investimenti aggiuntivi per la difesa pari a circa 500 miliardi di euro”.
Pur essendo il secondo attore al mondo per spesa militare ed anche un forte esportatore, la Ue dipende fortemente dalle importazioni dall'estero (il 78% degli appalti militari viene da fornitori terzi, di cui il 63% dagli Usa). Inoltre nel settore della difesa l'industria europea è troppo frammentata, e manca la standardizzazione, per cui per esempio l'Europa ha 12 tipi di carro armato mentre gli Usa ne hanno uno solo. L'Europa dovrà recuperare terreno soprattutto negli armamenti avanzati come droni, missili ipersonici, armi ad energia diretta e IA applicata alla guerra. Intanto, suggerisce Draghi, si può cominciare a incrementare la ricerca nei progetti dual-use, ossia civili applicabili anche nel militare.
Quanto alle catene di approvvigionamento di materie prime strategiche e prodotti di alta tecnologia, sussiste il problema della troppa dipendenza da paesi ostili o non facenti parte delle alleanze occidentali e dall'Africa, la cui “instabilità” mette a repentaglio la continuità delle forniture. Il rapporto insiste per reindirizzare queste catene verso fornitori “alleati”, ma è più facile a dirsi che a farsi, visto il quasi monopolio della Cina sulla catena del Litio per batterie e altre “materie critiche”, e vista l'estromissione degli imperialisti francesi ed europei in favore degli imperialisti cinesi e russi in diversi Stati africani in cui si estraggono questi minerali. Occorre insomma una forte “politica economica estera”, conclude Draghi, suggerendo che la Ue imperialista sia più attiva sui teatri geo-politici e militari dove si decidono le spartizioni di mercati e materie prime strategiche.
Colossali investimenti pagati con pensioni e tagli alla spesa
Comunque, per il banchiere massone, una cosa è certa: se l'Ue accetterà di riformarsi per essere una superpotenza economica, industriale e militare in grado di competere con Usa e Cina, dovrà spendere una barca di miliardi in investimenti: 750-800 miliardi di euro all'anno, pari a quasi il 5% del Pil dell'Unione. Per capirne meglio le dimensioni il rapporto fa il raffronto col piano Marshall 1948-51, che rappresentava “solo” l'1,2% del Pil europeo.
Investimenti così colossali non potranno essere coperti solo dai privati, che pure in Europa coprono storicamente i 4/5 del totale degli investimenti, ma avranno bisogno di un forte intervento pubblico. Draghi abbandona la riserva e arriva a sostenere apertamente la necessità di finanziarsi con “asset comuni sicuri”, vale a dire strumenti di debito comune sull'esempio del Next generation UE, come gli “eurobond” tanto invisi alla Germania e ai paesi “virtuosi” del Nord Europa, perché non vogliono accollarsi i disavanzi di paesi fortemente indebitati come l'Italia. Per indorare la pillola l'ex premier italiano suggerisce allora che questi paesi sottostiano a regole più rigide (il che è tutto dire) per la riduzione del debito. Aggiunge anche che un terzo dell'investimento potrebbe ripagarsi con la crescita del Pil grazie al portentoso “aumento di produttività”. Naturalmente sorvola sul problema di chi pagherebbe gli interessi sul debito, anche se tra le righe ammette che sarebbero inevitabili “risparmi di bilancio”: tradotto dal draghese, robusti tagli alla spesa sociale.
Comunque ci dovrebbe essere anche una forte “mobilitazione” del risparmio privato delle famiglie, che in Europa è molto alto (1.390 miliardi di euro contro gli 840 degli Usa). Per rastrellare una tale ricchezza – suggerisce il rapporto - si potrebbe cominciare con l'estensione della previdenza privata (fondi pensione e pensioni private e integrative).
Verso la superpotenza europea anche solo con i paesi più favorevoli
Draghi sa bene che tutto questo gigantesco programma economico, commerciale, industriale e militare non potrebbe essere intrapreso senza cambiare le attuali regole che governano la Ue, tra cui il diritto di veto dei singoli governi, che spesso bloccano o rallentano le decisioni più importanti, e per questo dedica l'ultimo capitolo del rapporto alle proposte per “rafforzare la governance” dell'Unione, premettendo che la soluzione ideale sarebbe una riforma dei trattati per un governo unico europeo. Ma sa anche che è irrealistico proporre una riforma dei trattati per abolire il veto, anche per la composizione della nuova Commissione von der Leyen più spostata a destra e compiacente coi gruppi “sovranisti”, per cui si limita intanto a suggerire misure per aggirarlo, come l'estensione del voto a maggioranza qualificata a più ambiti di intervento possibili e il perseguimento di “un approccio differenziato all'integrazione”, ovvero cominciare a realizzare il piano anche solo con un gruppo di paesi che ci stanno.
In Italia il piano Draghi è stato accolto da un ampio consenso tanto della destra che della “sinistra” borghese, che fanno a gara per intestarsi il lavoro del banchiere massone, con l'eccezione di AVS e M5S che invece l'hanno fortemente criticato, e di Salvini che ha ostentato un eloquente scetticismo. Il capogruppo di FdI alla Camera Foti ha dichiarato invece a Il Foglio,
il quotidiano più draghiano d'Italia, che “l’orizzonte culturale che è stato delineato da Mario Draghi nel suo rapporto sulla competitività europea ricalca molto più la nostra posizione in Europa negli ultimi cinque anni che non quella di altri”. Analoghe rivendicazioni dell'”agenda Draghi” sono state fatte dai deputati europei del PD Zingaretti e Ricci.
Anche la premier Meloni ha voluto intestarsi gran parte delle proposte del rapporto dopo aver ricevuto Draghi a Palazzo Chigi, con una nota in cui ne ha sottolineato “diversi importanti spunti”, tra cui “la necessità di un maggiore impulso all’innovazione, la questione demografica, l’approvvigionamento di materie prime critiche e il controllo delle catene del valore e, più in generale, la necessità che l’Europa preveda strumenti adatti a realizzare le sue ambiziose strategie – dal rafforzamento dell’industria della difesa fino alle doppie transizioni – senza escludere aprioristicamente nulla, compresa la possibilità di un nuovo debito comune”. Molto più fredda la premier neofascista è stata invece sulle proposte di riforma della governance, che toglierebbero potere ai governi “sovranisti” come il suo e quello del suo alleato ungherese Orban.
In Europa con analoga freddezza è stata accolta invece la proposta degli asset di debito comune, in particolare dal ministro delle finanze tedesco Lidner, secondo il quale “il prestito congiunto dell'unione non risolverà alcun problema strutturale”. Anche la von der Leyen si è mostrata prudente, dichiarando che prima di parlare di come finanziarli occorre definire le priorità e i progetti comuni”. Draghi non l'ha presa bene e illustrando il suo piano davanti al parlamento europeo ha sferzato i politici rimarcando che “chi si oppone al debito comune si oppone agli obiettivi Ue”, e che questo è indispensabile “per rilanciare l'Europa e continuare a garantire i suoi valori”: “A me spetta il compito di presentare la diagnosi. A voi, rappresentanti eletti, quello di tradurre questo programma in azione”, ha sentenziato il banchiere massone.
25 settembre 2024