Sciopero nazionale del settore automotive del 18 settembre
I metalmeccanici in piazza a Roma per il lavoro e contro Tavares e il governo Meloni
Una Piazza del Popolo stracolma di operai ha concluso la manifestazione nazionale del settore automotive. Quello di venerdì 18 ottobre è stato il primo sciopero generale unitario di tutto il comparto auto dopo oltre 30 anni (l'ultimo era stato nel 1994 per il gruppo Fiat). Lo sciopero, indetto dai sindacati metalmeccanici Fim-Cisl, Fiom-Cgil e Uilm-Uil era stato lanciato con lo slogan: "Cambiamo marcia: acceleriamo verso un futuro più giusto". Erano presenti i segretari di categoria Michele De Palma, Ferdinando Uliano e Rocco Palombella che sono intervenuti dal palco conclusivo. AL corteo anche i segretari generali nazionali di Cgil, Cisl e Uil, Maurizio Landini, Luigi Sbarra e Pierpaolo Bombardieri.
Migliaia di metalmeccanici, oltre 20mila, sono arrivati nella Capitale da ogni parte d'Italia dando vita ad un lungo corteo combattivo e colorato con striscioni e fumogeni, cori e canzoni per denunciare le grandi difficoltà che sta attraversando l'automotive. Un comparto strategico per l'Italia, che occupa centinaia di migliaia di persone e pesa l'11 per cento del Pil. Quando in Italia si parla di auto ci si riferisce sopratutto all'ex Fiat/Fca e adesso Stellantis, ma dobbiamo tenere di conto anche della componentistica, perché nel nostro Paese si lavora per tanti altri marchi, in particolare per quelli tedeschi.
Se la piazza era piena, le fabbriche sono rimaste quasi vuote. Come da “tradizione” Stellantis, seguendo lo stile della vecchia Fiat, ha cercato di minimizzare l'adesione allo sciopero quantificandola attorno all'8%, negli stabilimenti del gruppo (anche se in molti ci sono tanti lavoratori in cassa integrazione) le astensioni sono state altissime, così come nelle maggiori aziende della componentistica. Si va dal 100% alla Lear di Grugliasco (TO), alla Industria Italiana Autobus di Bologna e Flumeri (AV), alla Marelli di Caivano (Napoli), alla Maserati di Modena, negli stabilimenti Stellantis di Melfi e di Pratola Serra. Il 95% allo stabilimento Stellantis di Pomigliano e alla Dumarey di Pisa; oltre il 90% alla Tiberina; il 90% allo stabilimento Stellantis di Cassino e alla Marelli di Bologna; dell'87% alla Lamborghini, l’85% allo stabilimento Stellantis di Mirafiori; l’80% alla Bosch di Bari; il 75% alla Denso di Chieti e alla Ducati di Borgo Panigale (BO); il 70% alla Marelli di Sulmona e alla Trigano di Siena.
“In un'assemblea in piazza a Torino, assieme alle lavoratrici e ai lavoratori, avevamo detto che senza risposte da Stellantis, senza risposte dal governo, avremmo scioperato e manifestato a Roma. La nostra parola in assemblea vale più di una firma: eccoci qui”. È con queste parole che il segretario generale Fiom Cgil Michele De Palma, ha iniziato il comizio conclusivo della manifestazione di Roma. Riferendosi all’amministratore delegato di Stellantis Carlos Tavares, De Palma ha continuato: “dovrebbe avere rispetto per queste lavoratrici e lavoratori. In Parlamento ha detto che i lavoratori sono rancorosi. No, noi non siamo rancorosi: noi siamo incazzati, perché vogliamo lavorare e cancellare le parole esuberi e cassa integrazione della nostra vita. Le fabbriche sono nostre e noi le difendiamo come difendiamo l'industria del nostro Paese.”
Tutti rappresentanti sindacali hanno attaccato duramente Taveres che pochi giorni fa, in audizione alla Camera e al Senato, oltre ad offendere i lavoratori, è venuto a ricattare e a chiedere fondi pubblici, con la solita minaccia “o mi date i soldi, o chiudo”, già ampiamente praticata in passato anche dalla famiglia Agnelli. Pierpaolo Bombardieri della Uil ha chiesto “fatti concreti e in tempi rapidi. La piazza chiede di fare presto, la richiesta è mantenere gli impegni e di chiarire qual è il piano industriale con il quale si mantengono i posti di lavoro. È una richiesta al governo, alla politica, al ministro Urso”.
Giustissime le accuse a Tavares, a Stellantis e al Governo, colpevoli delle incertezze e delle contraddizioni di fronte alle sfide della transizione ecologica e della mobilità sostenibile. Ancora oggi il governo, di fronte ad un aumento della cassa integrazione nel gruppo Stellantis e in tutta la componentistica prende tempo e utilizza questa fase di transizione come alibi per giustificare la crisi del settore, la cig e i licenziamenti. Servirebbe però una sana autocritica, visto che quelli che adesso chiedono più rispetto per i lavoratori, ovvero i sindacati confederali Cisl e Uil, ma anche la Cgil, in un recente passato si sono genuflessi agli Agnelli accettando incondizionatamente il cosiddetto modello Marchionne, che ha introdotto non solo nella ex-Fca ma in tutto il Paese, relazioni industriali e sindacali di tipo mussoliniano.
La generale crisi del settore che colpisce l'Europa in Italia ha un aggravante, ed è quella dei movimenti finanziari della famiglia Agnelli che ha spostato i suoi interessi dall'auto ad altri settori. In questa ottica le strategie di Marchionne, tanto osannato dai partiti della destra e della “sinistra” di regime, hanno mirato ad acquisire altri marchi con l'aiuto di finanziamenti pubblici, italiani e stranieri, torchiare i lavoratori e rimpinguare le casse della famiglia torinese, fregandosene altamente delle lavoratrici e dei lavoratori e del futuro delle sue fabbriche, contribuendo in modo determinante alla dismissione quasi totale del settore dell'automotive del nostro Paese. Tanto che in una ventina di anni si è passati da una produzione di 2 milioni di autoveicoli agli attuali 500mila, mentre gli stabilimenti ex Fiat gli occupati si sono ridotti da quasi 200mila a poco più di 40mila.
L'unica soluzione sarebbe la nazionalizzazione, occorre un intervento dello stato, ma non l'ennesimo aiuto a fondo perduto e senza avere la possibilità di decidere. In ogni caso è necessario rivendicare subito anche una forte riduzione dell'orario di lavoro, fino a 30 ore settimanali a parità di salario, e non come adesso, che a periodi di cassa integrazione se ne alternano altri di ritmi forsennati e supersfruttamento. Senza dimenticare i salari, con stipendi così bassi che non permettono ai lavoratori che producono le auto, di potersele poi comprare, visto che un utilitaria elettrica costa 35-40mila euro.
23 ottobre 2024