Guadagnano meno di 9 euro l'ora, in maggioranza donne e giovani
Istat: in Italia 1 milione e 255 mila lavoratori poveri
Al danno la beffa: con il passaggio del cuneo fiscale dalla decontribuzione alla fiscalizzazione i lavoratori più poveri perderanno 1200 euro l'anno
Il governo sbandiera un milione di posti di lavoro in più e buoni risultati economici, ma quasi ogni giorno arrivano notizie allarmanti sulla povertà e sulle disuguaglianze. In Italia la concentrazione della ricchezza e la forbice tra i più agiati e i meno abbienti è più ampia che negli altri paesi avanzati, la povertà generale è in fortissima espansione, i salari rispetto all'inflazione sono in forte deficit come in nessun altro paese europeo. In più di tre anni sono questi i veri risultati di cui può “fregiarsi” il governo neofascista Meloni.
Se l'occupazione, dal punto di vista strettamente numerico, mostra un andamento positivo, le condizioni di lavoratrici e lavoratori e delle masse popolari sono ulteriormente peggiorate. Avere un lavoro, anche stabile, non significa avere uno stipendio dignitoso, tutt'altro. Secondo gli ultimi dati Istat un milione e 255mila persone, guadagnano meno di 9 euro l'ora, la stessa cifra che orientativamente era stata indicata come salario minino legale sotto la quale non si poteva scendere.
Il rapporto quadriennale sulla struttura delle retribuzioni elaborato dall'istituto di statistica è comunque un dato parziale, perché si riferisce ai dipendenti pubblici e privati nelle imprese dai 10 dipendenti in su che operano nei settori dell’industria e dei servizi. A fine 2022 di questi lavoratori il 10,7% è da considerarsi povero. Dato che può solo salire, se si includono l’agricoltura, gli autonomi e le micro imprese. Rispetto all’ultimo report, quello relativo al 2018 (9,8), la percentuale del lavoro povero cresce di quasi un punto.
Tra i dipendenti a bassa retribuzione 618mila sono donne e 637mila uomini. Numeri che non devono ingannare, perché a causa della minore occupazione femminile, le lavoratrici con salari poveri in percentuale sono di più, il 12,2% (nel 2018 l'11,6) rispetto ai lavoratori (9,6%, nel 2018 l'8,5%). Dal rapporto emergono anche altri dati significativi. Il differenziale di genere, ovvero la differenza tra i salari medi a parità di mansioni tra uomini e donne è del 5,6%, ovviamente a sfavore di queste ultime. Il gap salariale aumenta tra le professioni con una ridotta presenza femminile: tra i dirigenti supera il 30%, il 17,6% tra artigiani e operai, l'8,4% tra le professioni scientifiche e intellettuali, il 9,3% tra le professioni non qualificate.
Tra i giovani under 30 i dipendenti poveri sono ora il 23,6%, quasi uno su quattro, pressoché stabili rispetto al 2018 (erano il 23,9%): circa 371 mila. I giovani under 30 hanno una retribuzione media oraria di 11,9 euro e guadagnano il 36,4% in meno rispetto agli over 50 (18,7 euro) mentre il salario è del 24,7% inferiore a quella di coloro che hanno un’età compresa tra i 30 e i 49 anni (15,8 euro). Percentuali e differenze molto marcate, che confermano come ai nostri giovani siano riservati lavori precari e sottopagati.
Altre disparità sono rilevate in base all'istruzione, alla tipologia di azienda, all'anzianità di lavoro, al territorio. I dipendenti meno istruiti hanno una retribuzione oraria pari in media a 12,4 euro, inferiore del 17,3% a quella dei dipendenti con istruzione secondaria superiore (tra i quali è pari a 15 euro) e del 43,6% a quella dei dipendenti con istruzione terziaria (22 euro). I dipendenti con contratto a tempo determinato percepiscono il 24,6% in meno rispetto a chi ha un contratto a tempo indeterminato (la retribuzione è rispettivamente di 12,9 e 17,1 euro) e coloro che hanno un regime orario ridotto mostrano una retribuzione oraria che in media è inferiore del 30,6% a quella di chi ha un regime orario a tempo pieno.
Le differenze maggiori tra le classi di anzianità lavorativa in azienda si hanno nel passaggio da 0-4 ai 5-9 anni di anzianità (+17%) e tra 5-9 e 10-14 anni di anzianità (+16,5%). La retribuzione oraria degli uomini supera sempre quella delle donne, per qualsiasi anzianità lavorativa. Le retribuzioni medie orarie più basse caratterizzano il Sud (15,7 euro), immediatamente seguito dal Nordest (15,9 euro); quelle più alte si registrano nel Centro (17 euro). Infine, la retribuzione media oraria aumenta al crescere della dimensione dell’unità economica: le più piccole (tra i 10 e i 49 dipendenti) hanno la più bassa retribuzione media oraria (12,8 euro l’ora), mentre le più grandi (con almeno 1000 dipendenti) hanno quella più alta (19,2 euro l’ora).
In sintesi, un quadro assai desolante. E se questa è la fotografia dei salari in Italia non meravigliano i dati resi noti dall'Inps sulle pensioni relativi al 2024. L'equazione è semplice: salari poveri, pensioni povere che si riverbera in particolare sulle donne, a causa del record di part-time per lo più involontario imposto dai padroni, e le poche ore annue lavorate per gli impegni di cura di figli e anziani. Se a questo si aggiunge il cronico gap di genere (una donna viene retribuita fino al 30% in meno di un uomo) ecco il risultato: pensioni basse, 400 euro in media in meno dei maschi, 1.047,71 euro contro 1.475,28, ovviamente lordi.
Infine, una notizia degli ultimi giorni che sa di vera beffa, e che andrà a colpire proprio i redditi più bassi. La denuncia arriva dalla Cgil: “La maggior parte dei redditi sotto i 35 mila euro perde qualcosa, ma tra 8.500 e 9 mila euro viene a mancare l’intero trattamento integrativo da 1.200 euro”. Il riferimento è al taglio del cuneo fiscale e la sua trasformazione da contributivo a fiscale e che inceppa il meccanismo.
Il sindacato prende ad esempio un reddito da 8.500 euro lordi. Mentre nel 2024 il taglio dei contributi agiva a monte aumentando di 549 euro l’imponibile fiscale, il nuovo bonus da 548 euro agisce invece a valle perché è esentasse. E dunque nel 2025 questo contribuente ha un imponibile fiscale più basso (scende da 8.268 a 7.719 euro). Di conseguenza la sua imposta lorda vale meno della detrazione (1.775 euro contro 1.880). Tecnicamente è diventato incapiente. E in quanto incapiente, per legge, non gli spetta l’ex bonus Renzi-Conte da 100 euro al mese, diventato un “trattamento integrativo”, per cui il lavoratore perderà in un anno ben 1.200 euro.
29 gennaio 2025