Il governo e la Cisl si ispirano al corporativismo fascista
No alla legge sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende
Meloni: “Sarebbe una conquista storica per i lavoratori e per le imprese”
Durante il suo intervento tenuto all'Assemblea nazionale della Cisl dell'11 febbraio a Roma, la Meloni ha dato il pieno appoggio del suo governo alla proposta di legge di iniziativa popolare presentata in parlamento dalla Cisl sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende. La proposta della Cisl ruota intorno all'articolo 46 della costituzione che cita testualmente “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”
. Un testo molto vago che, quando fu scritto, lasciava uno spazio e una interpretazione molto ampia e tutta da costruire e che, nei fatti, non ha mai trovato la sua attuazione pratica.
Un articolo mai applicato
Questo è avvenuto per svariati motivi, ma tra i principali sicuramente c'è stata l'opposizione della Cgil e del PCI dei primi anni del dopoguerra, che poi si è trascinata per un paio di decenni successivi. Seppur già incamminati sulla revisionista via italiana al socialismo e sul collaborazionista “Patto del Lavoro”, il più grande sindacato e il maggior partito che rappresentava la classe operaia, pensavano ancora che il miglioramento delle condizioni dei lavoratori dipendessero dai rapporti di forza, specie a livello nazionale e internazionale, tra la borghesia e il proletariato. Un coinvolgimento diretto nella gestione aziendale avrebbe portato solo svantaggi da questo punto di vista, depotenziando la conflittualità e la mobilitazione della classe operaia e dei lavoratori, facendo passare il messaggio che gli interessi dei capitalisti e dei proletari fossero convergenti, ma potevano trovare un punto d'incontro evitando il conflitto.
All'Assemblea della Cisl il suo segretario Luigi Sbarra ha affermato che: “Di Vittorio si sarebbe rivoltato nella tomba”, riferendosi a chi oggi si oppone alla cogestione e al fatto che proprio il capo della Cgil di allora, ed esponente di spicco del PCI, fu tra coloro che scrissero la Costituzione, e Di Vittorio faceva parte proprio della sottocommissione che trattava i rapporti economici e sociali e quindi partecipò personalmente anche alla stesura dell'articolo 46. Questo è vero e non contraddice quanto detto sopra, ossia che la maggioranza del PCI era contraria alla collaborazione in azienda tra padroni e lavoratori. Ma nel partito revisionista erano presenti, più o meno mascherate, varie correnti e Di Vittorio era un esponente dell'ala destra del PCI, che già lavorava alacremente per fargli abbandonare qualsiasi velleità di socialismo e portarlo definitivamente nell'alveo della democrazia borghese e del capitalismo. E Di Vittorio fu tra i primi a venire allo scoperto in questo senso, dopo la morte di Stalin e il colpo di stato di Krusciov.
Inoltre dimostra anche quello che il PMLI ha sempre sostenuto, ovvero che quella italiana è una costituzione borghese da cima a fondo e nemmeno particolarmente avanzata, come invece afferma la “sinistra” borghese. Una costituzione frutto di un compromesso inevitabile, ma sbilanciato a favore della DC e della borghesia, dove il PCI, in cambio di alcune concessioni più che altro formali, rinunciava a proseguire sul cammino del socialismo, accettando di limitare il suo orizzonte politico alla legalità costituzionale borghese, disinnescando qualsiasi tentativo di rottura rivoluzionaria.
La partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende, nel sistema capitalistico, ha assunto varie connotazioni, tutte deleterie dal punto di vista rivoluzionario, e che non portano nemmeno risultati concreti. Questa partecipazione, cogestione, chiamiamola come vogliamo, nei fatti si traduce nella subordinazione degli interessi del proletariato a quelli della borghesia. La cogestione di ispirazione socialdemocratica praticata in Germania e per un certo periodo nei Paesi scandinavi, mira ad avere sindacati istituzionali, che si rendono partecipi della gestione economica capitalistica con una visione collaborativa. Poi c'è il corporativismo fascista, a cui si è ispirato il nazionalsocialismo hitleriano. In questo caso gli interessi concreti dei lavoratori sono totalmente assoggettati a quelli dell'azienda, quello che conta è contribuire alla crescita e alla potenza della Nazione.
La proposta della Cisl
La proposta della Cisl la si potrebbe collocare in mezzo a queste due impostazioni. Ma per la storia del nostro Paese, e per il particolare momento storico in cui ci troviamo, con un governo neofascista, questa è più assimilabile al corporativismo fascista che ben conosciamo in Italia. La legge proposta si pone l'obiettivo di normare e dare un quadro legislativo all'articolo 46 della Costituzione. In origine erano 22 articoli ma il governo l'ha emendata, peggiorandola e riducendola a 15 articoli. Già dalle prime righe si capisce che il ruolo dei lavoratori è meramente consultivo, non ci sono vincoli che possono bloccare le decisioni prese dalla direzione aziendale. Le rappresentanze dei lavoratori rimangono prive di un vero potere decisionale, e i meccanismi di partecipazione gestionale e organizzativa, svuotati di efficacia, si riducono a forme di coinvolgimento formale.
I lavoratori possono avere uno o più rappresentanti nei consigli di amministrazione, o di sorveglianza per le aziende duali (con due organi distinti di governance
) scelti da loro stessi. Ma il fatto che se concederli o meno sia a discrezione dell'azienda, permette di potersi scegliere i lavoratori e i sindacati filopadronali, negando qualsiasi spazio a chi si mostra combattivo, e favorendo invece le rappresentanze più accondiscendenti. La partecipazione, già puramente consultiva dei lavoratori, viene addirittura ridimensionata attraverso la modifica dell'articolo 12 (che poi a causa di alcune soppressioni diventa il 9) che prevedeva l'obbligo di informazione sulle scelte aziendali, diventa una opzione discrezionale, “possono essere consultati”.
Un altro capitolo importante è quello della partecipazione finanziaria dei lavoratori, anche attraverso la partecipazione azionaria, i cui proventi andrebbero a sostituire i premi di risultato anche grazie alla minore tassazione. Questo da una parte frena il lavoratore a prendere qualsiasi iniziativa che potrebbe in qualche modo danneggiare l'azienda (scioperi, blocco degli straordinari) perché le si potrebbe ritorcere contro, mentre nel caso di crisi l'azionista/lavoratore si ritroverebbe in difficoltà sia sul piano salariale sia su quello patrimoniale.
Il governo Meloni l'ha fatta propria
La proposta di legge della Cisl, come detto, è stata fatta propria dal governo, che l'ha ulteriormente peggiorata, anche se questo non rientrava nei suoi compiti. Un esempio è quello relativo all'istituzione della Commissione permanente per la partecipazione dei lavoratori (articolo 20, poi diventato il 13), con il compito di pronunciarsi su “eventuali controversie interpretative che dovessero sorgere in ordine alle modalità di svolgimento delle procedure previste nelle imprese dei diversi settori“. Nella versione rimaneggiata questo pronunciamento diventa “non vincolante”.
Tutta l'impianto di questa legge, sia nella versione originale e ancor di più in quella definitiva emendata, è funzionale a rapporti sindacali e di lavoro di stampo collaborativo e corporativo. Un modello che cerca di comprimere il più possibile il conflitto di classe, in questo caso coinvolgendo i lavoratori nella gestione aziendale, seppur in maniera totalmente subalterna, marginale e solo formale. Senza dimenticare che accanto a queste proposte paternalistiche e cogestionarie, il governo neofascista della Meloni ne affianca altre esplicitamente repressive, come il restringimento del diritto di sciopero e la repressione delle lotte sindacali attraverso “il decreto sicurezza”.
Altro che “conquista storica per i lavoratori e per le imprese, che darebbe finalmente compimento a un'intuizione straordinaria dei nostri padri costituenti”, come ha detto la Meloni. Questa esaltazione della costituzione da parte degli eredi del fascismo dovrebbe pure far riflettere quanti si continuano a ispirarsi a essa e a definirla la costituzione più bella del mondo. Ad esultare sarebbero soltanto le imprese e i fascisti di oggi, per cui l'attuazione dell'articolo 46 della Costituzione è da sempre obiettivo primario. Del resto il corporativismo era un cardine del fascismo. Mussolini al riguardo affermava "è la pietra angolare dello Stato fascista, anzi lo Stato fascista o è corporativo o non è fascista".
No a qualsiasi forma di cogestione
Per quanto riguarda la Cisl, non ci è dato sapere se la presentazione di questa proposta sia stata concordata con il governo, ma il sospetto è più che legittimo, sta di fatto che tra questo sindacato e l'esecutivo c'è una grande unità d'intenti e l'identica missione di strappare il proletariato e i lavoratori dalla lotta di classe contro il capitalismo per il socialismo. Il proletariato finirebbe in tal modo per forgiarsi da solo le catene della schiavitù salariata capitalistica. Tale proposta di legge non c'entra un bel nulla con la “democrazia economica” tirata in ballo da governo e Cisl, per giustificarla di fronte alle lavoratrici e ai lavoratori, e invece si sposa con la visione corporativa di ispirazione fascista tanta cara al partito della Meloni. Una visione e una linea politica e sindacale che viene riconfermata dalla nuova segretaria succeduta a Luigi Sbarra.
Daniela Fumarola il 14 febbraio ha lasciato la seguente dichiarazione: “Il patto di S. Valentino sottoscritto 41 anni fa da Cisl e Uil con il governo Craxi, rappresenta ancora oggi un riferimento imprescindibile per chi crede nel riformismo sindacale e nella concertazione come leva di crescita e sviluppo sociale. Quell’accordo non fu soltanto una risposta tecnica ad una situazione economica difficile -caratterizzata da inflazione galoppante, perdita di competitività e crisi occupazionale- ma segnò una svolta politica e culturale: la consapevolezza che le riforme necessarie per i Paese si costruiscono attraverso il dialogo e la responsabilità, non con contrapposizioni sterili”.
In sostanza ha esaltato quell'accordo che precedette il decreto di San Valentino con cui Craxi tagliò il meccanismo di recupero del salario chiamato scala mobile. Un accordo che sancì, anche da parte sindacale, la centralità dell'impresa, inaugurò la politica dei redditi (bassi) e dei sacrifici dei lavoratori per risollevare le sorti del capitalismo nazionale. Il “Patto” neocorporativo per eccellenza, firmato da Cisl e Uil, che la Cgil non firmò, è bene ricordarlo, perché il PCI lo impose al segretario di allora Luciano Lama (che invece era propenso a farlo), temendo ripercussioni sul piano elettorale e dei consensi.
Noi ci opponiamo a questa proposta di legge e a qualsiasi forma di corporativismo e cogestione. Proletariato e borghesia, sfruttati e sfruttatori non potranno mai essere sulla stessa barca e avere interessi comuni, bisogna tracciare una chiara e netta linea di demarcazione tra il proletariato e i lavoratori da una parte e la borghesia e il suo governo dall’altra parte, perché gli interessi e le esigenze sono contrapposti. I lavoratori non potranno mai diventare nel capitalismo i padroni delle proprie aziende. Il proletariato può avere la guida delle fabbriche, dell'intero sistema economico e produttivo del Paese e della macchina statale solo abbattendo il capitalismo e conquistando il potere politico e il socialismo.
19 febbraio 2025