In conseguenza dell'abbandono del marxismo-leninismo e dell'abbraccio al Confederalismo anarchico e femminista
Ocalan capitola: “Deporre le armi e sciogliere il PKK”
Il dittatore fascista Erdogan apre all'accordo
Addio all'indipendenza del Kurdistan

“Come ogni comunità e partito moderno la cui esistenza non è stata abolita con la forza, farebbe volontariamente, convocate il vostro congresso e prendete una decisione; tutti i gruppi devono deporre le armi e il PKK deve sciogliersi”. Così si conclude l' “Appello per la pace e una società democratica”, che il 75enne leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan, Abdullah Ocalan, detto Apo, ha scritto di suo pugno il 25 febbraio nell'isola-prigione di Imrali, dove è recluso in isolamento da 26 anni. Appello che ha consegnato ad una delegazione di sette dirigenti del Dem, il partito turco filocurdo che rappresenta la terza forza politica nel parlamento turco, e da questi letto pubblicamente due giorni dopo a Istanbul in lingua curda e turca, in collegamento video con i territori della Turchia e della Siria dove il PKK è presente, e anche con una piazza di Berlino.
L'appello coincide col 26° anniversario della cattura di Ocalan, avvenuta il 15 febbraio 1999 a Nairobi, da parte di una squadra di agenti turchi, del Mossad e della Cia, dopo che aveva tentato di ottenere asilo politico in Italia ma il governo D'Alema, sotto le pressioni turche e americane, se ne era sbarazzato espellendolo dal Paese. L'appello al PKK a deporre le armi, che intende porre fine a oltre 40 anni di resistenza armata del popolo curdo costata 40 mila morti, e ad integrarsi “democraticamente” nella Repubblica turca, era annunciato già da alcuni mesi, in particolare da quando lo scorso ottobre il leader ultra nazionalista del partito MHP, Devlet Bahceli, principale alleato di governo dell'AKP di Erdogan, aveva annunciato una mediazione per arrivare ad un accordo in tal senso col leader curdo. Da allora erano state consentite sull'isola-prigione del Mar di Marmara una visita dei familiari di Ocalan, l'unica negli ultimi 4 anni, e due visite dei delegati del DEM, a dicembre e gennaio; con un'accelerazione del processo di svolta a fine anno, in vista dell'anniversario del 15 febbraio, ricordato con manifestazioni anche in Italia e in tutta Europa.

Un atto di resa al dittatore fascista Erdogan
Il PKK era stato fondato in Turchia il 27 novembre 1978, tra i due colpi di Stato fascisti del 1971 e 1980, su basi ideologiche e politiche marxiste-leniniste, per realizzare uno Stato curdo indipendente e socialista, ed era passato alla lotta armata nel 1984. In apertura dell'appello Ocalan si rifà a quell'epoca, da lui definita “la più violenta nella storia dell'umanità, tra le due guerre mondiali, all’ombra dell’esperienza del socialismo reale e della Guerra Fredda in tutto il mondo”, e alla situazione di allora in Turchia, con “la negazione totale della realtà curda e le restrizioni ai diritti e alle libertà fondamentali – in particolare la libertà di espressione”, come a voler giustificare quella scelta come obbligata allora, e al tempo stesso ingiustificabile adesso che le cose sarebbero del tutto “cambiate”.
Infatti, nel paragrafo successivo, Ocalan completa questa tesi aggiungendo che “il PKK è stato sotto le pesanti realtà del secolo e il sistema del socialismo reale per quanto riguarda la sua teoria, il programma, la strategia e la tattica adottati. Negli anni ’90, il crollo del socialismo reale dovuto alle dinamiche interne, il dissolvimento della negazione dell’identità curda nel paese e il miglioramento della libertà di espressione hanno portato all’indebolimento del significato fondativo del PKK e hanno provocato un’eccessiva ripetizione”. A suo dire, cioè, da una parte il crollo del “socialismo reale” (in realtà del socialimperialismo sovietico e dei regimi revisionisti satelliti dell'Est), avrebbe fatto venire meno la vocazione marxista-leninista e l'aspirazione al socialismo del PKK, considerandoli un'esperienza storicamente finita; e dall'altra, il presunto progresso “democratico” della Turchia che egli riconosce al regime fascista di Tayyip Erdogan, avrebbe reso superati come un'inutile “ripetizione” la resistenza armata e l'indipendentismo curdi.
“La necessità di una società democratica è inevitabile”, la lotta armata era dovuta soprattutto “al fatto che i canali della politica democratica erano chiusi”, e oggi le “estreme deviazioni nazionaliste - come uno stato-nazione separato, la federazione, l'autonomia amministrativa o le soluzioni culturaliste (la rivendicazione del diritto ad un'istruzione in lingua curda, ndr) - non riescono a rispondere alla sociologia storica della società”, continua infatti Ocalan. E aggiunge: “Il secondo secolo della Repubblica può raggiungere e assicurare continuità permanente e fraterna (tra curdi e turchi, ndr) solo se è coronata dalla democrazia. Non c’è alternativa alla democrazia nel perseguimento e nella realizzazione di un sistema politico. Il consenso democratico è il modo fondamentale”.
Dopodiché segue un vero e proprio atto pubblico di resa al dittatore fascista Erdogan, quando il leader curdo scrive: “La chiamata del sig. Devlet Bahceli, insieme alla volontà espressa dal sig. Presidente, e le risposte positive degli altri partiti politici, hanno creato un ambiente in cui sto facendo appello alla deposizione delle armi, e mi assumo la responsabilità storica di questo appello”. Chiudendo infine con l'invito ai combattenti a deporre le armi e al PKK a sciogliersi, che abbiamo riportato all'inizio.

Le reazioni delle varie forze curde all'appello
Messa in questi termini quella di Ocalan (che il trotzkista Acerbo considera il nuovo Mandela) appare come una resa senza condizioni, dal momento che l'appello non contiene nessun obbligo per la controparte. In realtà mancava un ultimo paragrafo, che il prigioniero stava ancora contrattando con le autorità turche, e che è stato inserito dalla delegazione DEM, come nota aggiuntiva, solo dopo aver già reso pubblico il testo autografo dell'appello il 27 febbraio a Istanbul. La nota dice che “senza dubbio, la deposizione delle armi e lo scioglimento del PKK richiedono in pratica il riconoscimento di una politica democratica e di un quadro giuridico”. Il che, se da una parte mette una fragile quanto generica condizione alla resa, non ne cambia sostanzialmente il significato.
Lo provano tra l'altro le dichiarazioni tracotanti e minacciose di Erdogan e di altri esponenti dell'AKP, che si aspettano un rapido disarmo e scioglimento del PKK minacciando altrimenti la sua completa distruzione, mentre intanto le forze turche non cessano i bombardamenti sui territori curdi: “Se le promesse date non vengono mantenute e si tenta di ricorrere a trucchi orientali come il costante stallo – ha minacciato infatti il dittatore fascista copiando il nazisionista Netanyahu - continueremo le nostre operazioni in corso, se necessario, fino a quando non elimineremo l’ultimo terrorista, senza lasciare una sola pietra sopra l’altra, senza lasciare una sola testa sulla sua spalla”. Mentre il portavoce del suo partito AKP, Omer Celik, ha negato qualsiasi negoziato in corso tra Ankara e il PKK, intimando che “tutte le organizzazioni terroristiche, indipendentemente dal loro nome, tra cui il PKK e i suoi affiliati in Iraq e Siria, devono deporre le armi e dissolversi”.
Da parte sua il PKK ha aderito prontamente all'appello di Ocalan, il cui Comitato esecutivo ha deciso un cessate il fuoco unilaterale dal 1° marzo, riservandosi di usare le armi solo se attaccato. Ponendo però alcune condizioni al disarmo, tra cui quella che al suo leader siano assicurate le condizioni per vivere e lavorare liberamente e di poter dirigere personalmente il congresso. Analoga decisione ha preso il Comando del Centro di Difesa del Popolo (HSM), estendendola a tutte le sue forze in Turchia e Kurdistan.
Non così invece altre formazioni armate, come i comandanti dei gruppi delle montagne di Qandil, che prima di cessare il fuoco hanno chiesto un incontro di persona con Ocalan. E come il fondatore del Partito dell'Unione Democratica (PYD), vicino al PKK, Saleh Muslim, uno dei fondatori dell'Amministrazione autonoma della Siria settentrionale e orientale (AANES), per il quale l'appello di Ocalan richiede ulteriori analisi per essere attuato: “Se le ragioni per portare armi vengono rimosse, le deporremo”, ha dichiarato al canale saudita “Al-Arabiya”.
Nettamente contrario alla cessazione della lotta armata contro il regime fascista di Erdogan chiesta da Ocalan si è dichiarato invece il Comitato centrale del Partito comunista marxista-leninista di Turchia/Kurdistan (MLKP), che in un documento del 2 marzo ha definito il suo Appello per la pace e una società democratica, “incompatibile con la realtà della polarizzazione tra oppressori e oppressi, ricchi e poveri, governanti e popoli oppressi in Turchia, Kurdistan e nel mondo”. Sottolineando altresì che “è impossibile per la classe operaia, le donne, i popoli oppressi e i lavoratori senza lotta armata e violenza di massa rivoluzionaria raggiungere le loro richieste di base, ottenere la libertà e creare un mondo giusto e umano”.

Completata la conversione borghese del revisionista Apo
La capitolazione di Ocalan non si può certo considerare un fulmine a ciel sereno. Al festival di Newroz nel 2013, egli aveva già chiesto una soluzione politica al conflitto e proposto un processo di pace, come secondo tempo dei “colloqui di Oslo” del 2007. Allora non aveva ancora chiesto lo scioglimento del PKK, ma aveva proposto che il PKK si ritirasse dal territorio turco al nord dell’Iraq, come primo passo. Il disarmo del PKK non doveva aver luogo fino a quando il processo di pace non fosse stato assicurato: “Questa non è una fine ma un nuovo inizio. Questo non è abbandonare la lotta, stiamo iniziando una lotta diversa”, aveva detto. Il ritiro dalla Turchia e il cessate il fuoco bilaterale aveva consentito al PKK di concentrarsi nella lotta allo Stato islamico in Iraq e Siria. Poi, nel 2015, proprio in conseguenza del successo delle forze curde in quella guerra, Erdogan ruppe l'accordo e riprese le ostilità.
D'altra parte già dal 1999, cioè dalla sua incarcerazione, Ocalan aveva rinnegato ufficialmente il marxismo-leninismo, facendo sparire la falce e martello dal simbolo del partito e sostituendo l'obiettivo del socialismo con il “confederalismo democratico”, convertendosi al pensiero borghese, libertario, ecologista, femminista e municipalista, ispirato alle teorie anarco-trotzkiste dell'americano Murray Bookchin. Attualmente il leader del PKK è arrivato a mettere al centro del suo pensiero politico soprattutto il femminismo come motore di ogni lotta, elevando il concetto femminista piccolo-borghese della “liberazione della donna” a vera e propria categoria mistica: “La sacralità appartiene alla donna. La donna è l’universo stesso, mentre l’uomo è una deviazione da esso, un pianeta deviato. È la donna che per prima cosa produce la lingua per rivolgersi al bambino. È anche la donna che produce cultura. È la donna che dà alla luce la società. La santità e la divinità le appartengono”, è arrivato a scrivere nel suo messaggio alle donne per l'8 marzo.
Con questo appello, perciò, Apo ha solo completato la sua conversione al confederalismo anarchico e femminista, giungendo a decretare lo scioglimento del partito e proporre l'integrazione in qualche forma del popolo curdo nella “democrazia” turca, rinunciando per sempre alla sua autodeterminazione in uno Stato indipendente di tipo socialista.

Il disegno egemonico di Erdogan e il futuro dei curdi
Se per Ocalan questo accordo di resa era già da tempo nell'ordine delle cose, restano da capire quali sono invece le motivazioni di Erdogan e perché si sia deciso ad accettare una mediazione che finora aveva sempre rifiutato. Molte analisi concordano sul fatto che egli avesse bisogno di assicurarsi i voti dei curdi in parlamento per avere la maggioranza qualificata necessaria a cambiare la Costituzione, così da potersi ricandidare per un terzo mandato presidenziale alle elezioni del 2028. Ma oltre a questo obiettivo politico contingente ce ne potrebbe essere uno più strategico, legato all'inserimento dell'imperialismo regionale turco nel processo di ridisegno del Medio Oriente portato avanti da Israele, prima che quest'ultimo, con l'appoggio degli USA di Trump, riesca a prendersi tutto il banco e diventare l'unica potenza egemone nell'area. In questo quadro, Erdogan punterebbe verosimilmente a completare il suo disegno egemonico sulla nuova Siria - che si va formando dopo la caduta di Assad e l'uscita di scena dei rivali russi e iraniani - eliminando la spina nel fianco curda con la sua integrazione nella nuova entità statale guidata da Ahmed al-Sharaa (ex al-Jolani).
Lo confermerebbe anche il recentissimo accordo raggiunto tra al-Sharaa e il comandante delle Forze democratiche della Siria (SDF), generale Mazloum Abdi, che riunisce la milizia popolare YPG, quella femminile YPJ e gli altri gruppi armati curdi e di altre minoranze etniche dell'Amministrazione autonoma della Siria del Nord-Est (DAANES o Rojava), da tempo in trattative per l'integrazione delle SDF nel nuovo esercito siriano; non si sa ancora se entrandovi come corpo unitario o come singoli soldati. Si sa solo che l'accordo prevede un cessate il fuoco su tutti i territori siriani, l'integrazione di tutte le “istituzioni civili e militari” dell'amministrazione del Nord-Est in quella dello Stato siriano, e che lo Stato siriano riconosce il diritto di cittadinanza e i suoi diritti costituzionali alla “comunità indigena” curda.
E anche questo sembra andare purtroppo nella strada della liquidazione del Kurdistan come Stato indipendente, già aperta dall'appello capitolazionista di Ocalan, che renderebbe vani oltre 40 anni di sangue versato e di sacrifici inenarrabili patiti dal popolo curdo per la sua liberazione dal giogo dell'oppressione imperialista turca.
 
12 marzo 2025