Scontro in parlamento tra la destra e la sinistra del regime capitalista neofascista sul “Manifesto di Ventotene” dei liberali Spinelli e Rossi
La vera questione non è quale UE ma l'abolizione dell'UE
Nonostante l'attacco fascista subìto, la “sinistra” borghese non osa denunciare il governo Meloni di essere neofascista. Il voltafaccia del PCI revisionista: dalla contrapposizione all'adesione all'alleanza imperialista europea
Basta con Mussolini in gonnella, antifasciste/i scendiamo in piazza
Concludendo, il 19 marzo alla Camera, la sua replica finale al dibattito sulle comunicazioni del governo in vista del Consiglio europeo, Giorgia Meloni ha sferrato un improvviso e velenoso attacco alle opposizioni parlamentari prendendo di mira il “Manifesto di Ventotene”; ovvero il Manifesto per un'Europa libera e unita
federalista, considerato storicamente il primo atto fondativo dell'Unione europea, scritto nel 1941 dagli antifascisti Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni mentre si trovavano confinati in quell'isola dal regime mussoliniano,
Cominciando col dire di non aver chiaro “quale idea d'Europa abbia la sinistra”, Meloni ha ricordato la manifestazione dei pro-Europa di Piazza del Popolo e il “Manifesto di Ventotene” da questi richiamato, per poi sferrare il suo attacco aggiungendo di sperare “che quelli che lo citano non l'abbiano letto, perché l'alternativa sarebbe spaventosa”. E qui ne ha citato alcuni passaggi, isolando dal loro contesto alcune frasi della terza e quarta parte del documento, scelte appositamente per dimostrare il suo presunto carattere illiberale e quasi di stampo “sovietico”. Frasi facenti riferimento infatti alla immaginata “rivoluzione europea” che sarebbe seguita alla caduta del nazi-fascismo, che “dovrà essere socialista”, alla proprietà privata, che “deve essere abolita, limitata, corretta estesa caso per caso”, nonché alla “dittatura del partito rivoluzionario” (federalista, ndr) attraverso cui “si forma il nuovo Stato e attorno ad esso la nuova democrazia”; per poi concludere stizzosamente: “Non so se questa è la vostra Europa, ma certamente non è la mia”!
I motivi della provocazione di Meloni
Era un'evidente risposta provocatoria alle accuse di trumpismo e antieuropeismo con cui era stata bersagliata dalle opposizioni, e in particolare dal PD, per il suo equilibrismo tra il presidente Usa e Ursula von der Leyen; come a dire “non avete diritto di accusarmi di essere antieuropea quando le radici del vostro europeismo sono quella roba lì”. La provocazione della premier neofascista, sostenuta dalla gazzarra dei banchi della destra incitati dalle sue stesse smorfie e gesti di derisione, ha suscitato veementi proteste da parte delle opposizioni parlamentari, tanto che il presidente Fontana ha dovuto sospendere per due volte la seduta. Le polemiche sono proseguite anche nei giorni successivi, con la premier che non solo continuava a ripetere pubblicamente il suo giudizio sul “Manifesto di Ventotene”, ma ad una cena a Bruxelles con i suoi parlamentari europei si vantava di essersi “divertita moltissimo” facendo “impazzire il PD”. Quest'ultimo, insieme agli altri partiti di opposizione, esclusi M5S e Azione, per tutta risposta si recava in pellegrinaggio alla tomba di Spinelli a Ventotene, mentre La Repubblica
, che aveva lanciato con l'anti PMLI Michele Serra la manifestazione di Piazza del Popolo, annunciava la distribuzione del “Manifesto di Ventotene” insieme al quotidiano. E così via, passando per lo show di Benigni su Rai1 meloniana, che proprio la sera del 19 metteva in scena un entusiastico panegirico tanto del “Manifesto di Ventotene” che dell'UE nata su sua ispirazione.
L'anima liberalriformista e federalista del “Manifesto di Ventotene”
Ovviamente la ducessa barava rappresentandolo come un documento di ispirazione socialista e quasi “sovietica”, mentre invece il suo vero carattere è liberalriformista e federalista, e di “socialista” ha solo una certa terminologia, peraltro puntualmente contraddetta quando la si legga completa del suo contesto, anziché isolandola ad arte come ha fatto costei. Così, per esempio, se si completa la frase sulla “rivoluzione socialista” citata solo a metà dalla Meloni, si vede che tale rivoluzione consiste soltanto nel “proporsi l'emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane di vita”: obiettivo riformista generico e minimalista tipico del liberal-socialismo azionista dell'epoca, che non metteva certo in discussione il capitalismo e la proprietà privata, come la premier voleva far credere.
Infatti, subito dopo la precisazione su che cosa intende per “rivoluzione socialista”, il Manifesto sottolinea che “la statizzazione generale dell'economia... non porta allo scopo sognato, bensì alla costituzione di un regime in cui tutta la popolazione è asservita alla ristretta classe dei burocrati gestori dell'economia, come è avvenuto in Russia”. Invece, “le gigantesche forze di progresso che scaturiscono dall'interesse individuale, non vanno spente... ma esaltate ed estese offrendo loro una maggiore possibilità di sviluppo ed impiego”, aggiunge il documento. Si tratta solo semmai di perfezionare e consolidare “gli argini che le convogliano verso gli obiettivi di maggiore utilità per tutta la collettività”. Tutto qui il suo “socialismo”.
Quanto all'“abolizione” tout court
della proprietà privata, nel testo è chiaramente riferita solo alla nazionalizzazione di aziende monopolistiche di interesse strategico collettivo, come l'energia elettrica, industrie minerarie, grandi istituti bancari, industrie degli armamenti. E le sue “limitazioni, correzioni, estensioni, caso per caso”, si riferiscono in realtà a politiche redistributive di tipo socialdemocratico e non certo socialista, come la riforma agraria (“aumentando enormemente il numero dei proprietari”), e l'estensione della “proprietà dei lavoratori, nei settori non statizzati, con le gestioni cooperative, l'azionariato operaio, ecc.”.
Federalismo europeo in funzione antisovietica
Per quanto riguarda poi l'accusa meloniana al Manifesto di preconizzare istituzioni antidemocratiche e dittatoriali, perché nega che nella situazione di caos susseguente alla caduta del nazifascismo in Europa il “partito rivoluzionario” possa contare su “una preventiva consacrazione da parte della ancora inesistente volontà popolare”, bisogna tenere conto del periodo in cui è stato scritto, nel 1941, quando i nazisti spadroneggiavano ancora in tutta Europa e l'Italia fascista era entrata da pochi mesi in guerra al loro fianco, e l'avvento della democrazia parlamentare borghese nelle forme istituzionali determinatesi nel dopoguerra era ancora difficile da immaginare. Inoltre Spinelli era un ex membro del PCI, espulso nel 1937 per antistalinismo, cioè un trotzkista; Rossi un esponente liberale di Giustizia e libertà e Colorni un socialista. Logico che ci fossero influssi delle loro formazioni politiche nella terminologia usata.
Ma basta leggerlo al completo per capire che questo documento, la cui idea centrale è il federalismo europeo, mutuato dal pensiero federalista del liberale Luigi Einaudi, come unico mezzo per impedire le guerre scatenate dai nazionalismi, da perseguire con un movimento federalista, interclassista e liberale, trasversale a tutti i partiti, dai liberali e riformisti ai socialisti e comunisti (movimento che sarà poi fondato dai tre autori e da altri nel 1943 a Milano), non ha nulla a che vedere col socialismo, ed è anzi essenzialmente filocapitalista, antisocialista e anticomunista.
Non a caso negli anni del dopoguerra, in linea col giudizio dell'URSS di Stalin e il Comintern, il PCI revisionista stigmatizzava i primi tentativi di integrazione comunitaria dell'Europa occidentale (la prima istituzione comunitaria europea del carbone e dell'acciaio, o CECA, è del 1951 ), come spinti dalla guerra fredda e sostenuti dall'imperialismo Usa in funzione anticomunista e antisovietica, tanto da considerare anche la fallita Comunità europea di difesa (CED) come una filiazione del Patto Atlantico e stabilire un'equivalenza tra l'europeismo e l'atlantismo. E vedeva il Movimento federalista europeo, che infatti aveva appoggiato il tentativo della CED, come sostenitore di fatto della politica imperialista occidentale di divisione dell'Europa in blocchi e di isolamento dell'URSS socialista.
Già in uno scritto su Rinascita
n. 11 del novembre 1948, Togliatti ironizzava sul Movimento federalista europeo di Spinelli, che era partito “da un astratto razionalismo pacifista” per approdare “a una concreta e storicamente ben determinata politica di frattura dell'Europa stessa”, con i paesi capitalisti da una parte e quelli socialisti dall'altra. E aggiungeva che questo “equivoco” era emerso al recente congresso federalista di Roma, divisosi tra i sostenitori aperti dell'“'europeismo' di Churchill e dei suoi amici americani, per cui si tratta soltanto di fondare un'alleanza antisovietica e antisocialista”, e la corrente “più prudente”, che pur “spaventata” dall'“imperialismo anglosassone dei churchilliani... cerca le vie di mezzo... ma una via di mezzo non esiste”. Da parte sua Spinelli, a dimostrazione del suo radicato anticomunismo, pochi giorni dopo annotava nei suoi diari: “Quando la società tornerà ad essere fatta per la sua maggioranza di gente per bene dirà basta e i partiti comunisti saranno proibiti”.
La progressiva conversione del PCI revisionista all'europeismo imperialista
Ma già tra il 1956 e il 1957 (anno in cui vengono istituiti l'Euratom e la Comunità economica europea o CEE, con la loro piena accettazione da parte del PSI), questa prima fase di antieuropeismo ideologico di principio dei revisionisti italiani sfuma gradualmente in una seconda fase di antieuropeismo ormai solo retorico e formale, e di apertura di fatto alle idee e alle istituzioni comunitarie, più consona alla nuova linea riformista della togliattiana “via italiana al socialismo” sancita con l'VIII congresso del PCI del 1956. L'anno successivo è la CGIL per prima a riconoscere la tendenza all'integrazione dei mercati come possibile “miglioramento” anche per i lavoratori, ed è Bruno Trentin ad affermare che la Comunità europea non poteva più essere ignorata.
Lo stesso Togliatti, al IX congresso del 1960, pur confermando che il Mercato comune aggravava la divisione in blocchi, auspicava una “revisione” dei suoi trattati al fine di difendere i settori dell'economia italiana in crisi. Intanto si apriva un dibattito tra dirigenti ed economisti vicini al PCI, aventi come riferimento politico il destro Giorgio Amendola, soprattutto intorno alla rivista “Politica ed economia” su cui scrivevano Luciano Barca, Bruno Trentin e Valentino Parlato, in cui si cominciavano ad apprezzare gli effetti del Mercato comune, anche in relazione ad una maggiore autonomia dagli USA. Il X congresso del 1962 segna poi una svolta, col riconoscimento del Mercato comune come “una realtà politica con la quale bisogna fare i conti”. Si passava cioè ad una seconda fase in cui l'antieuropeismo di principio cedeva il passo a una sorta di antieuropeismo critico, che cominciava a pensare a una possibile partecipazione attiva del PCI al processo di integrazione per “influenzarlo” dall'interno, favorita anche da una ripresa dei rapporti coi partiti socialdemocratici europei.
Fase che durerà fino alla fine degli anni '60, quando nel 1969 cade il veto della maggioranza parlamentare alla nomina di esponenti del PCI al parlamento di Strasburgo, tra cui ci sarà lo stesso Amendola, insieme a Nilde Iotti e Scoccimarro. Per approdare infine ad una terza fase caratterizzata stavolta da un europeismo critico, di preparazione all'accettazione completa dell'integrazione europea e all'ingresso pieno nelle sue istituzioni, che avverrà nel corso degli anni '70 sotto la direzione di Berlinguer e il ruolo trainante di Amendola, con un lungo ma costante progresso favorito dalla presa di distanza da Mosca dopo l'invasione della Cecoslovacchia da parte del socialimperialismo sovietico, e dalla politica di “compromesso storico” e di avvicinamento al governo, che a livello europeo si traduce nella rinuncia all'uscita dalla Nato e a considerare l'integrazione europea un “caposaldo della politica estera del PCI”. Nel 1977 il PCI vota a favore di un documento di politica estera in parlamento che sancisce come la Nato e gli impegni comunitari costituiscano il tratto fondamentale della politica estera italiana.
Il Manifesto anticipa l'Europa di Draghi e von der Leyen
È in questo periodo che i vertici revisionisti del PCI si riavvicinano a Spinelli e lo riammettono nel partito, fino a farlo eleggere nelle loro liste come indipendente alla Camera nel 1976, e successivamente nel primo parlamento europeo ad elezione diretta nel 1979. Nei suoi diari egli commenterà il suo rientro nel PCI come l'unico caso capitato ad un ex-comunista, non perché lui avesse cambiato idea, ma perché era stato il partito a cambiarla. E si diceva stupito per l'impegno non solo europeista, ma con chiare impronte di tipo federalista del PCI, federalismo che del resto egli attribuiva al bagaglio culturale della sinistra.
Si comprende bene allora perché il PD di Elly Schlein, partito liberale della “sinistra” borghese a cui sono approdati i rinnegati e riformisti del vecchio PCI revisionista, difenda oggi a spada tratta e con tanto accanimento il liberale anticomunista Spinelli e il “Manifesto di Ventotene”, facendone la bandiera del suo incallito europeismo pro-UE imperialista e guerrafondaia. Anche gli opportunisti che si collocano in posizione critica o a “sinistra” del PD, come i vari Michele Serra, Fratoianni, Conte, Revelli ecc., sventolano ognuno a modo suo la bandiera del “Manifesto di Ventotene”, considerandolo in generale un modello alternativo all'UE del banchiere massone Draghi e della militarista e guerrafondaia von der Leyen, per un'Europa più spostata a “sinistra” e più sensibile alle istanze delle masse lavoratrici e popolari.
Ma si tratta di un inganno bello e buono, dal momento che nello stesso Manifesto di Spinelli era già delineato nelle sue linee essenziali l'attuale assetto politico dell'UE imperialista, laddove nella prefazione di Colorni del 1944 si riassumono gli obiettivi fondamentali dell'Europa federale, che sono: “esercito unico federale, unità monetaria, abolizione delle barriere doganali e delle limitazioni all’emigrazione tra gli stati appartenenti alla Federazione, rappresentanza diretta dei cittadini ai consessi federali, politica estera unica”. Obiettivi effettivamente realizzati, a parte l'esercito unico e la politica estera unica, che sono proprio tra quelli su cui spingeva di più Draghi nel suo rapporto sulla competitività europea per far sì che l'UE imperialista possa competere da pari a pari con gli USA e la Cina.
L'osanna di Benigni a un'UE imperialista da distruggere
A proposito di tale inganno va segnalato il vergognoso show televisivo “Il sogno” di Roberto Benigni, autodefinitosi “un europeista estremista”, avente proprio lo scopo, con l'esaltazione degli “eroi” Spinelli, Rossi e Colorni (ma anche il democristiano anticomunista De Gasperi, da lui definito “il più grande presidente del Consiglio che abbiamo avuto”), di unire tutte le correnti della “sinistra” borghese e soprattutto i giovani (che “devono realizzare il sogno europeo”) dietro la bandiera azzurra dell'UE imperialista. Che secondo lui sarebbe “la più grande istituzione degli ultimi 5000 anni realizzata sul pianeta terra dall'essere umano”: “Se ci unissimo fino in fondo saremmo la potenza più grande, ma c'è il diritto di veto, e l'Europa ha le mani legate. E poi c'è l'esercito: abbiamo piccoli eserciti che da soli non saprebbero difendersi da nessuno, sarebbe più efficiente un esercito unico con un solo comando, fate l'esercito europeo comune, non si perde sovranità, si recupera”, si è spinto a raccomandare questo voltagabbana e giullare del regime capitalista neofascista.
L'Unione europea va invece delegittimata e distrutta, perché nella realtà, e non come nei sogni di Benigni e di tutti gli opportunisti, essa è un'organizzazione monopolistica e imperialista irriformabile, una superpotenza mondiale in lotta con le altre superpotenze per il dominio assoluto del globo, una fortezza sempre più fascista, razzista e impenetrabile per i migranti, dove spadroneggiano il grande capitale monopolistico e la grande finanza, il “welfare” è sempre più tagliato, i lavoratori più spremuti e le masse popolari più tosate dei loro risparmi e senza voce né diritti rispetto alle élite al comando. E adesso, in un contesto globale in cui i fattori di guerra stanno aumentando esponenzialmente verso un confronto militare tra l'imperialismo Usa e il socialimperialismo cinese, innescato dall'aggressione putiniana nazizarista all'Ucraina, messa con le spalle al muro da Trump la superpotenza europea si è anche lanciata in una folle e gigantesca corsa al riarmo, cercando con ciò di bruciare le tappe per essere pronta a partecipare alla nuova spartizione del mondo.
Buttare giù il governo neofascista Meloni e uscire dall'UE
La vera questione, dunque, non è quale UE scegliere, se quella di Ventotene o quella di Maastricht, che poi sono due facce della stessa medaglia, ma è abolire la UE. Non è sufficiente 'rompere' i trattati dell’UE o parlare di uscire dall’euro, occorre uscire dall’UE imperialista. La vera questione è capire che solo il socialismo, quello vero e non quello fasullo di Ventotene, buono solo per servire da pretesto alle intemerate della neofascista Meloni e da bandiera per i servi sciocchi dell'UE imperialista, è in grado di realizzare l'Europa dei popoli con la Repubblica socialista d'Europa, cominciando però col realizzare il socialismo nei suoi singoli paesi.
La diatriba sul “Manifesto di Ventotene” dimostra ancora una volta che la “sinistra” borghese non osa rispondere ai proditori attacchi fascisti della ducessa Meloni denunciando il suo governo come neofascista. Elly Schlein si è spinta solo fino a ribattere in aula che “la Presidente Meloni non solo non ha il coraggio di difendere i valori su cui l’Unione si è fondata dagli attacchi di Trump e di Musk, ma oggi qui ha deciso di oltraggiare la memoria europea”. E ha continuato con la solita tattica perdente di chiedere alla premier neofascista: “Stiamo ancora aspettando di sentire che lei si dichiari antifascista, come la nostra Costituzione su cui ha giurato”. Come se ciò potesse cambiare il suo Dna mussoliniano.
Occorre invece dire basta una volta per tutte al Mussolini in gonnella! E non è con i metodi legalitari e rinunciatari dell'opposizione aventiniana che lo si potrà fare, ma chiamando in piazza le antifasciste e gli antifascisti per buttare giù con la lotta di massa lei e il suo governo neofascista, con lo spirito e sull'esempio delle partigiane e dei partigiani contro Mussolini e i nazisti, e delle lotte di piazza dei giovani operai contro il governo fascista Tambroni nel 1960.
Come ha detto il Segretario generale e Maestro del PMLI, compagno Giovanni Scuderi, nella sua relazione di valore congressuale alla 7ª Sessione plenaria del 5° CC del PMLI del 30 giugno 2024: “Il governo Meloni è una dittatura neofascista in contrasto persino con la democrazia borghese. Va quindi combattuto e abbattuto senza esclusione di colpi, usando tutte le forme di lotta, legali e illegali, parlamentari e extraparlamentari, pacifiche e violente di massa. Una lotta che va portata avanti fino alle estreme conseguenze, alla guerra civile, se risponde alla volontà delle masse”.
26 marzo 2025