Trump scatena la guerra dei dazi
Le conseguenze sulle masse italiane
Crollano le Borse

“L'operazione è finita! Il paziente è sopravvissuto e sta guarendo”. Così, come un novello Nerone che si compiace a guardar divampare l'incendio appena appiccato, Donald Trump commentava il 3 aprile sul suo social Truth l'effetto dirompente dei micidiali dazi annunciati il giorno prima, mentre le borse di tutto il mondo subivano un crollo senza precedenti dai tempi del Covid, compresa Wall Street che bruciava 2.000 miliardi di dollari in una sola seduta, di cui 1.400 di titoli hi tech, mentre il dollaro subiva un calo del 2%, e calava anche il prezzo del petrolio, segno evidente di timori di recessione mondiale. E calavano di un 10% complessivo pure le criptovalute, annullando i guadagni realizzati a partire dalla vittoria elettorale di Trump. E persino l'oro, bene rifugio per eccellenza, accusava una perdita di valore che arrivava al 4%.
“Il paziente sarà molto più forte, più grande, migliore e più resiliente che mai”, continuava invece imperterrito il dittatore fascioimperialista, “ci sarà un boom dei mercati e un boom del paese”; mentre annunciava trionfante che “tutti i paesi ci stanno chiamando. Questo è il bello di ciò che facciamo. Ci mettiamo alla guida”. Ma il giorno dopo, venerdì 4 aprile, le cose andavano anche peggio, con New York che chiudeva la settimana con un ulteriore 5% (peggior dato dal 2020), bruciando altri 4.000 miliardi di dollari, e anche le Borse europee subivano un altro tracollo simile, perdendo altri 819 miliardi dopo i 422 del giorno precedente, per un totale di 1.200 bruciati in due giorni, con Milano la peggiore a trainare le vendite col -6,3%.
E nemmeno la riapertura dei mercati, lunedì 7, segnava un'inversione di tendenza, anzi stavolta erano le Borse asiatiche ad accusare le perdite maggiori, con il -13,6% di Hong Kong, -9,6% di Taiwan, -9,5% Tokyo, e perdite in crescita tra il 4 e il 5% anche tra le Borse europee (Milano -5,2 %), che bruciavano altri 700 miliardi di capitalizzazione. In totale sono stati quasi 2.000 i miliardi persi dalle Borse europee in tre sedute, e 10.000 quelli a livello mondiale.

Come sono stati calcolati i dazi di Trump
Come abbiamo detto, a causare questo tsunami economico, commerciale e finanziario che ha travolto subito le Borse, ma le cui conseguenze richiederanno del tempo per far sentire tutto il loro effetto, sono stati i dazi protezionistici annunciati il 2 aprile da Trump - da lui definito il “giorno della liberazione”, il giorno in cui “abbiamo iniziato a rendere l'America ricca di nuovo” - in una pomposa cerimonia dal prato della Casa Bianca. Dazi che vanno da un minimo del 10% per tutti, ad un massimo che per certi paesi arriva a sfiorare il 50%, e che per la Ue sono del 20%. “Per decenni, il nostro paese è stato saccheggiato, saccheggiato, violentato e saccheggiato dalle nazioni vicine e lontane, sia amici che nemici”, ha esordito il dittatore a stelle e strisce, davanti a una selva di giornalisti, operatori tv e cheerleader plaudenti, ivi compresa una delegazione di operai e sindacalisti, definendo questo annuncio “la nostra dichiarazione di indipendenza economica”.
Le tariffe reciproche, come lui le chiama, erano illustrate in alcuni tabelloni, mostranti paese per paese i presunti dazi applicati da ognuno di essi alle merci Usa, con a fianco i dazi in risposta decisi dalla sua amministrazione, ridotti della metà perché “noi siamo gentili, molto gentili”, ha sottolineato sarcastico. Così, per esempio, all'Unione europea viene applicato un dazio del 20%, che è la metà del 39% che, secondo le tabelle elaborate dal segretario al Commercio Howard Lutnick, sarebbe il dazio imposto alle esportazioni americane in Europa. In realtà l'Ue ribatte che il dazio ponderato medio da essa applicato non supera il 3%, e allora da dove viene fuori questa vistosa discrepanza?
Gli esperti non ci hanno messo molto a capire che Lutnick aveva usato una formula che calcolava semplicemente l'incidenza del disavanzo della bilancia commerciale Usa sulle importazioni da ogni paese, ossia la differenza tra importazioni ed esportazioni diviso le importazioni. Con questa formula di calcolo tanto arbitraria quanto stravagante, in cui non entra per niente la variabile dazi, alla Cina tocca un dazio del 34%, che si va ad aggiungere al 20% già applicato precedentemente, per un totale di ben il 54%. Ma c'è n'è per tutti, senza riguardi neanche per paesi alleati e amici, come per il Vietnam, che ha beneficiato dello spostamento di produzioni di aziende americane come Nike e Apple precedentemente delocalizzate in Cina, e quindi ha un forte surplus commerciale con gli Usa, a cui tocca un dazio del 46%; per il Giappone (24%); per la Corea del Sud (25%); per la Svizzera (31%); per Israele (17%), e persino per Taiwan (32%). E così via, fino a casi assurdi come i dazi molto alti applicati a paesi poverissimi come il Lesotho, o abitati solo da pinguini come certe isole dell'Antartide.

Gli obiettivi della guerra tariffaria
Quali sono le ragioni che hanno spinto Trump a scatenare questa guerra dei dazi contro tutto il resto del mondo, e quali sono gli obiettivi che si propone di realizzare con la sua rischiosa scommessa? Il primo tra quelli da lui stesso dichiarati, e suggeriti dal suo consigliere commerciale Peter Navarro, è rastrellare circa 700 miliardi di dollari all'anno di dazi dai paesi esteri utilizzandoli per l'abbassamento delle tasse che ha promesso alle classi più abbienti e agli oligarchi che hanno finanziato la sua campagna elettorale, e con la rassicurazione a quelle meno abbienti che ciò non provocherà un aumento dell'inflazione.
Questo nella scommessa, tutta da verificare, che siano le aziende esportatrici straniere ad accollarsi l'intero costo dei dazi, permettendo al governo americano di “utilizzare trilioni e trilioni di dollari per ridurre le nostre tasse e pagare il nostro debito nazionale”, come ha detto Trump, confermando di lavorare affinché il Congresso passi “i più grandi tagli alle tasse nella storia americana” e “non taglieremo i benefici della sicurezza sociale”. Peccato però che tutti i grandi istituti finanziari del paese, da JP Morgan a Bloomberg, fino allo stesso capo della Federal Reserve, Jerome Powell, prevedano che i dazi provocheranno un aumento di inflazione importata del 2% e anche più, e finanche una recessione già nel corso di quest'anno, con un aggravio di spesa medio per le famiglie americane di 3.800 dollari.
L'altra scommessa di Trump è che le imprese estere siano costrette a trasferire le loro produzioni negli Stati Uniti, pur di non perdere il ricco mercato americano, che è il suo secondo obiettivo promesso in campagna elettorale: cioè costringere il resto del mondo a investire nella reindustrializzazione degli Usa, per rivitalizzare la manifattura americana impoverita da decenni di delocalizzazioni all'estero e concentrazioni dell'economia verso l'alta tecnologia, i servizi digitali e la finanza.
“La mia risposta è molto semplice se si lamentano. 'Se vuoi che la tua tariffa sia zero, allora costruisci il tuo prodotto proprio qui in America perché non c'è una tariffa se costruisci il tuo impianto, il tuo prodotto in America'”, ha detto infatti Trump con la consueta demagogia paternalistica, mentre mettendo la mano sulla spalla di un ex operaio dell'automotive di Chicago gli annunciava che “il lavoro è già iniziato sugli impianti di tutto il paese”, e che grandi aziende come Apple, SoftBank, Open AI, Oracle, Nvidia e TSMC si erano già impegnate di reinvestire in casa per migliaia di miliardi.

Le difficoltà degli Usa e la sfida sociaimperialista cinese
Ma anche qui la scommessa è quantomai azzardata, perché il processo di trasferimento di produzioni richiederà molto tempo, mancano le competenze e la mano d'opera specializzata che andranno formate, e inoltre le catene produttive sono ormai troppo lunghe e interdipendenti a livello internazionale per essere velocemente spezzate e ricostruite in casa senza provocare conseguenze peggiori della cura. Invece inflazione e recessione sono già alle porte, specie se ci saranno ritorsioni da parte dei paesi colpiti applicando dei controdazi alle merci Usa.
La Cina, primo paese nel mirino di Trump, ha già risposto accusandolo di “bullismo unilaterale” e annunciando a sua volta controdazi del 34%, che si aggiungono al precedente 20% su importazioni di carbone, soia, petrolio, gas e mais e sulle restrizioni alle esportazioni di terre rare negli Usa. E il dittatore fascioimperialista risponde minacciando a sua volta di aumentare il dazio sull'import dalla Cina di un ulteriore 50%, il che lo farebbe salire ad un totale del 104%. Una spirale che accelera enormemente i già forti pericoli di una terza guerra mondiale scatenata dalle due superpotenze per l'egemonia mondiale.
I socialimperialisti di Pechino lo sfidano, aprendo ora all'Europa, al Giappone e alla Corea del Sud, considerando la sua guerra dei dazi un sintomo di debolezza e quasi un tentativo disperato di reagire alla profonda crisi dell'imperialismo a stelle e strisce, che per decenni ha goduto dei frutti della globalizzazione per vivere al di sopra delle proprie risorse, senza preoccuparsi del debito sempre crescente (fino ad arrivare oggi alla mostruosa cifra di 33,4 trilioni di dollari), finanziato con 1.000 miliardi di interessi all'anno grazie alla forza del dollaro come moneta di riferimento internazionale, che alimenta a sua volta il crescente disavanzo della bilancia commerciale.
Trump cerca ora di rompere il circolo vizioso e invertire la rotta tornando ad una spericolata politica protezionistica, che gli economisti borghesi paragonano non a caso a quella del suo predecessore Hoover nel 1930, che inaugurò la grande depressione del decennio che finì con la Seconda guerra mondiale. Un altro suo obiettivo, secondo l'ambiziosa dottrina economica di un'altra testa d'uovo del suo staff, Stephen Miran, è infatti quello di ridurre il valore del dollaro per aumentare la competitività dei prodotti americani, e contemporaneamente ridurre il debito, utilizzando la leva tariffaria per strappare agli altri paesi un accordo-capestro in cambio della riduzione dei dazi e dell'”ombrello” protettivo militare Usa: vendere le loro riserve, per ridurre il valore del dollaro, e accettare una riduzione del rendimento dei titoli del Tesoro americano e il prolungamento della scadenza fino ad un secolo.

Le reazioni dell'Ue e della neofascista Meloni
L'Unione europea, che rischia un salasso di 104 miliardi dai dazi di Trump e un calo del Pil almeno dello 0,5% quest'anno (ma la Germania, il paese più esportatore negli Usa, del 4%), invece temporeggia, sperando che il dittatore americano accetti l'offerta di trattativa di Ursula von der Leyen per dazi zero sui prodotti industriali. Nel frattempo prepara una prima lista di prodotti americani per circa 25 miliardi di euro, da colpire con dazio equivalente del 20% in due tranche il 15 aprile e il 15 maggio, in attesa di una terza di riserva su 350 miliardi di beni se la trattativa non dovesse partire o non dare frutti.
Ma c'è anche chi, come i francesi, premono per una risposta più forte, usando la minaccia di ritorsioni contro le grandi aziende americane dei servizi finanziari e del digitale (carte di credito, Amazon, Meta, Google, Microsoft ecc.), ben sapendo che se l'Europa prevale nelle esportazioni manifatturiere e nell'agroalimentare, gli Usa prevalgono invece in tutti questi servizi, e tali restrizioni potrebbero fare molto male. D'altra parte Trump usa la minaccia dei dazi anche per ottenere un abbattimento delle restrizioni e delle norme europee a difesa della qualità e dell'ambiente. “L'Europa è stata creata per danneggiarci. Noi paghiamo per la loro difesa e loro ci fregano col commercio”, si lamenta infatti il Tycoon. Nel frattempo la Commissione europea esplora iniziative di riserva per trovare nuovi sbocchi commerciali verso la Cina e gli altri mercati orientali e con il Mercosur dei paesi latino-americani.
La neofascista Meloni ha una posizione diversa, stretta com'è tra la concorrenza da destra del fascio-trumpiano Salvini, che reclama una trattativa separata con Trump per strappare un trattamento di favore per l'Italia “sovranista”, le pressioni di Coldiretti, Confagricoltura e Confartigianato, che rappresentano una buona parte del suo elettorato (per sostenere le loro imprese progetta di dirottare 6 miliardi del PNRR), e quelle dei leader europei che chiedono una risposta ferma al dittatore americano, facendo valere la forza del più grande mercato mondiale per costringerlo a venire a patti.
Sicché la premier neofascista tergiversa, ripete come un mantra l'invito a non drammatizzare perché i dazi sono “un problema, ma non è una catastrofe”, che si deve trattare con Trump “per scongiurare una guerra commerciale che inevitabilmente indebolirebbe l'Occidente a favore di altri attori globali”, e punta semmai il dito contro la stessa Ue, invitandola a tagliare i “veri dazi che si è autoimposta”, come le “regole ideologiche” sul Geen Deal e l'automotive ed il patto di stabilità, la cui revisione “a questo punto mi sembra necessaria”. E per questo chiede insistentemente a Trump un incontro a Washington per metà aprile, prima che l'Ue vari il primo pacchetto di dazi, sperando di ritagliarsi un ruolo da mediatrice per l'Europa e al tempo stesso ottenere un occhio di riguardo per l'Italia, sfruttando il suo presunto rapporto privilegiato col Tycoon. A questo scopo sarebbe disposta a offrirgli un aumento delle importazioni del suo costosissimo gas e a comprare armi americane.

Le conseguenze per le masse italiane
A dispetto dei mantra antipanico della ducessa, l'Italia ha invece molto da perdere in questa guerra dei dazi scatenata dal suo amicone d'oltreoceano. Anche se le esportazioni negli Usa rappresentano “solo” il 10% del totale, come ci ha tenuto a sottolineare, quel mercato è pur sempre il nostro principale al di fuori dell'Ue e il secondo dopo la Germania, con un export di 65 miliardi ed un avanzo di 39 nel 2024, in aumento costante (erano 11,5 miliardi 10 anni fa). E soprattutto è molto concentrato in alcuni settori, che perciò rischiano perdite importanti, come l'automotive, i macchinari, la farmaceutica, la moda e l'agroalimentare, in particolare vino, olio, pasta e formaggi; in cui le esportazioni pesano per quote dal 30 al 40% della produzione totale.
Per il Parmigiano-reggiano, per esempio, il mercato americano rappresenta il 22,5% dell'export, e il dazio aumenta dal 15% a ben il 35%. Il rischio, come per tanti altri prodotti doc dell'eccellenza italiana, è la crisi con riduzione dell'occupazione per il restringimento dei margini, o che se ne avvantaggino i prodotti di concorrenza “italian sound” (come il Parmesan) se i costi dei dazi venissero trasferiti sui prezzi. Sono ben 100 mila infatti le imprese, per la maggior parte medie e piccole, che lavorano con gli Usa. Il segretario della Uil, Bombardieri, stima che siano 60 mila i posti a rischio nel made in Italy. Le regioni più colpite sono quelle del cuore produttivo nazionale: Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana, Veneto e Piemonte.
 
9 aprile 2025