Primo sciopero nazionale con l'adesione dei sindacati confederali e di base
Ricercatori e precari dell'università in piazza contro tagli, riarmo Ue e ddl sicurezza
Da Torino a Milano, Siena, Bologna, Roma, Palermo, Napoli, Venezia e in tante altre città del Nord, Centro e Sud Italia sedi di facoltà universitarie e centri di ricerca, il 12 maggio hanno incrociato le braccia migliaia di precari delle università: ricercatrici e ricercatori, assegnisti, dottorandi e personale precario.
È stato il primo sciopero nazionale che ha visto l'importante e significativa adesione anche dei sindacati confederali e di base. Una iniziativa di lotta molto importante dal momento che per queste lavoratrici e lavoratori scioperare diventa difficile perché, come ha spiegato uno degli organizzatori al quotidiano Domani: “Siamo costretti a inventarci delle forme simboliche di sciopero perché non essendo inquadrati come lavoratori veri non possiamo attingere alle forme di protesta classiche e già questo ci fa capire quanto il sistema universitario sia delirante”.
A indire la mobilitazione è stata l’Assemblea Precarie Unitarie (APU), la piattaforma che riunisce le tante assemblee nate nell’ultimo anno negli atenei, insieme all’Associazione dottorandi italiani (ADI) e a molte sigle sindacali: ADL Cobas, CLAP, Confederazione Cobas, CUB, FLC CGIL, USB, USI. Accanto ai precari e alle precarie della ricerca hanno manifestato studentesse e studenti, alcuni docenti, personale tecnico-amministrativo, personale esternalizzato delle biblioteche e degli appalti multiservizi delle università uniti dalla parola d'ordine “Contro tagli, precarietà, guerra”.
Al centro delle rivendicazioni la richiesta di maggiori fondi per garantire posizioni stabili a chi fa ricerca, meno risorse per la guerra, abolizione del contratto di ricerca istituito dal governo Draghi in sostituzione degli assegni di ricerca e il ritiro del DDL Bernini varato dal governo neofascista Meloni.
Le rivendicazioni dell’APU sono sintetizzate in sette punti e riguardano il Raddoppio del Fondo di Finanziamento Ordinario. La stabilizzazione per tutte/i, contratto unico post-doc e ritiro del DDL Bernini. Stop a guerra e militarizzazione e No al piano Rearm Europe e al decreto sicurezza. Fine del sistema di valutazione ANVUR e dei meccanismi premiali di redistribuzione del FFO. Didattica e ricerca libere da logiche di mercato e da progetti privati e competitivi. Stop esternalizzazioni e contratti stabili per tutte le figure che lavorano in università. Più borse di studio, mense e alloggi gratuiti per studenti e studentesse.
Nel documento di fondazione dell'APU redatto a febbraio 2025 fra l'altro si legge: “Siamo le lavoratrici precarie e i lavoratori precari che portano avanti la didattica e la ricerca nell’università italiana. Siamo quasi la metà del personale docente e di ricerca. Il nostro lavoro è essenziale per il funzionamento dell’università, anche se è spesso invisibile e isolato, reso flessibile, incerto e senza garanzie contrattuali, né sindacali. Siamo le/i dottorande/i il cui lavoro non è riconosciuto come tale, in una condizione di ricattabilità che ci impone di svolgere gratuitamente mansioni richieste dal docente di riferimento o da aziende che ci finanziano il dottorato. Siamo collaboratrici/tori all’attività di ricerca, assegniste/i, ricercatori/trici e docenti a contratto che lavorano per salari insufficienti, con contratti brevi e senza tutele, senza garanzie di rinnovo, senza sapere in che città vivremo né a quale progetto ci dedicheremo l’anno successivo”.
Un esercito di 30.000 precari e 40.000 precari senza tutele e senza diritti sul cui sfruttamento si è retta per decenni l'Università italiana. Vittime sacrificali dei pesanti tagli finanziari e del blocco del turnover al 75% operato da tutti i governi sia di centro destra che di “centro-sinistra” che si sono succeduti nel corso degli ultimi decenni, ora rischiano l’espulsione a causa degli ulteriori tagli all'Università e della controriforma Bernini approvata il 7 agosto 2024 dal Consiglio dei ministri.
L’università italiana è già pesantemente sottofinanziata. L'Italia investe solo l’1,5% della spesa pubblica nell’Università, a fronte di una media UE del 2,5%. Secondo i dati Istat, nel 2022 l’Italia ha speso in ricerca e sviluppo appena l’1,37% del Pil, contro il 2,8% dei Paesi OCSE e il 2,1 della UE. Di questa percentuale, solo il 36,5% proviene da istituzioni pubbliche. Ciò significa che nel 2022 il finanziamento pubblico in ricerca e sviluppo è stato meno dello 0,5% del Pil.
“In alcuni atenei – denuncia l'APU in un comunicato stampa - si è già assistito a una riduzione dei servizi, all’aumento delle tasse studentesche, alla riduzione delle borse di dottorato, alla chiusura di corsi di laurea e di linee di ricerca, a licenziamenti delle lavoratrici/tori dei servizi esternalizzate/i. I tagli penalizzano soprattutto la ricerca di base e favoriscono i finanziamenti privati alla ricerca”. Mentre i rappresentanti della Rete delle società scientifiche sottolineano che già oggi l’Italia è agli ultimi posti nella UE in termini di percentuale di laureati sugli occupati e i tagli del DDL Bernini non faranno altro che aggravare le distanze nei confronti dei maggiori paesi in termini di risorse disponibili.
I tagli colpiscono pesantemente anche il personale. “Oggi – denuncia ancora la Rete delle società scientifiche - circa il 40% di tutto il personale docente e di ricerca è costituito dagli oltre 20 mila assegnisti di ricerca e 9 mila ricercatori a tempo determinato di tipo A (RTDA)... Nei prossimi tre anni intorno al 10% dei professori ordinari e associati andrà in pensione. Ma il governo anziché favorire nuovi concorsi ha rallentato il turnover e creato incertezza sul reclutamento”.
Il Ddl Bernini introduce “una forma di post-doc precario, sottopagato e privo di tutele senza eguali in Europa”, si legge fra la'ltro sul suo dell'’Associazione dottorandi italiani (ADI). l'ADI, insieme all’FLC CGIL, a febbraio scorso ha presentato un esposto alla Commissione europea per denunciare che l’Italia non sta rispettando gli obblighi del PNRR sull’Università, e anzi rischia di ostacolare il percorso per stabilizzare i suoi lavoratori chiesto dall’Europa.
L’esposto ha costretto il governo a sospendere temporaneamente l’attuazione del Ddl Bernini perché contrasta in pieno con gli obiettivi del Pnrr che, invece, mirano a mitigare il precariato e chiedono contratti di lavoro di tipo subordinato con il pagamento dei contributi e le tutele adeguate. In pratica, rendere attuativo il Ddl 1240 avrebbe significato per il governo correre il serio rischio di perdere i finanziamenti del PNRR dedicati alla ricerca e all’università. Quindi il decreto è bloccato; ma nel frattempo il contratto di ricerca non viene sostenuto finanziariamente.
Tutto questo ha creato di fatto un vuoto legislativo per cui molti ricercatori, i cui contratti e le cui borse sono scaduti, non possono essere riassunti, mentre altri che aspettavano un primo contratto di ricerca non lo avranno.
Il 13 maggio scorso le principali istituzioni scientifiche italiane - tra cui Accademia Nazionale dei Lincei, ANVUR, CNR, CoPER, CRUI, INFN, insieme al premio Nobel Giorgio Parisi, hanno sottoscritto un documento redatto dal Rappresentante nazionale per le azioni Marie Skłodowska-Curie (MSCA) di Horizon Europe e del National Contact Point APRE. Nel comunicato stampa con cui le istituzioni scientifiche hanno annunciato l'invio del documento al parlamento italiano si legge fra l'altro che “A partire da gennaio 2025 è entrata in vigore l’abolizione degli assegni di ricerca, una decisione ereditata dall’attuale Governo. Questo cambiamento normativo ha lasciato il sistema nazionale senza uno strumento contrattuale adeguato per assumere i giovani dottorandi che partecipano ai progetti europei Marie Skłodowska-Curie (MSCA), finanziati al 100% dalla Commissione europea”.
Per rimediare ai danni provocati dal Ddl Bernini lo stesso governo ha concordato col senatore Mario Occhiuto di Forza Italia un emendamento che viene discusso in questi giorni al Senato in cui è prevista l'istituzione di due nuove figure, più “flessibili” nel Contratto di ricerca: gli incarichi di ricerca per chi ha una laurea magistrale e gli incarichi post-doc per chi ha il PhD.
L’APU ha immediatamente bollato emendamento come: “L’ennesimo tentativo di precarizzare la ricerca, promettendo incarichi post-doc senza contratto né tutele, in cambio di un’indennità. Il tutto in totale contrasto con gli standard minimi europei”. Anche la Rete delle società scientifiche ha redatto una nota in cui si espone le molte perplessità su questa soluzione: “Si moltiplicano le figure precarie, accanto ai Borsisti e al Contratto di ricerca che è ora decollato; gli incarichi non si configurano come contratti di lavoro subordinato, sembrano essere borse simili ai vecchi assegni di ricerca, con costi inferiori. Ma allo stesso tempo sono dichiarati incompatibili con attività di lavoro subordinato... Per questi incarichi nell’emendamento non si parla di salario, ma di indennità, non si capisce se c’è una contrattualizzazione e, per l’incarico di ricerca, non viene neppure fissato un limite minimo di compenso. Insomma, ci troviamo di fronte a una spinta pericolosa perché aprirebbe una nuova controversia con l’Europa e ci farebbe fare un passo indietro”.
Condanna unanime anche da parte dell’ADI, secondo cui: “L’introduzione di uno strumento giuridicamente anomalo e privo delle garanzie del lavoro subordinato – per attività di ricerca, didattica e terza missione – costituisce un grave precedente, che svilisce la dignità professionale dei ricercatori, contraddice i principi costituzionali di una Repubblica fondata sul lavoro ed espone l'Italia al rischio di infrazione degli obblighi assunti in sede europea”.
Insomma, denunciano ancora i ricercatori, a fronte di tagli all’università e alla ricerca, il governo Meloni si dice pronto a spendere il 2% del Pil in difesa. “Ogni euro speso per le armi è un euro tolto alla ricerca e le istituzioni nazionali ed europee scommettono sulla ricerca come elemento strategico per i piani di riarmo. Il 'dual use' si accredita gradualmente come criterio di valutazione dei progetti, ma quasi ogni ricerca è ormai potenzialmente sia militare che civile”.
La lotta dei ricercatori contro il Ddl Berinini, i tagli all'Università e il riarmo Ue, per un lavoro stabile, a salario pieno e sindacalmente tutelato, è indirizzata anche contro il decreto sicurezza, che “consente l’ingresso dei Servizi Segreti in università per operare controlli su bandi, persone e risultati di progetto, scavalcando la privacy anche del singolo ricercatore”.
21 maggio 2025