Referendum senza quorum
Tredici milioni di Sì
Per lo scarso impegno di PD, AVS e M5S, nonché della CGIL e della UIL. Massimo impegno del PMLI, ignorato dai media. Vi ha influito anche il disimpegno delle masse disgustate dai partiti e dai sindacati del regime capitalista neofascista. Decisiva la posizione astensionista del governo Meloni. Fallita la strategia di Landini di cambiare l'Italia per via elettorale. Difendere l'istituto del referendum e abbassare il quorum
Convincere i milioni del Sì e le astenute e gli astenuti elettorali di sinistra che per cambiare l'Italia ci vuole il socialismo e il potere politico del proletariato
I 5 referendum dell'8 e 9 giugno non hanno raggiunto il quorum. Un'importante occasione per abrogare leggi che favoriscono la precarietà, che ledono i diritti e la sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori, è andata persa. Così come l'occasione di ridurre i tempi biblici per ottenere la cittadinanza italiana. Se i numeri non si possono contestare, certamente non mancano gli elementi su cui fare considerazioni e valutazioni, senza farsi travolgere dalla propaganda della destra e della “sinistra” borghesi.
Partiamo dall'affluenza, che per tutti e cinque i referendum si attesta intorno al 30%. Di questi, sommando i risultati del territorio nazionale con le sezioni estere, quasi l'87%, equivalente a circa 13 milioni di voti si è espresso per il SÌ per quanto riguarda i referendum sul lavoro, mentre per quello sulla cittadinanza la percentuale dei SÌ è stata del 65,3%, pari a 9.748.896 di voti. È inevitabile fare dei confronti. Ebbene, negli ultimi 30 anni i referendum abrogativi (dieci consultazioni) solo una volta hanno raggiunto il quorum, nel 2011 per l'acqua pubblica e per riconfermare il No al nucleare, e quando non lo hanno raggiunto, quasi sempre l'affluenza si è attestata sotto il 30%.
A destra hanno colto l'occasione per invocare misure restrittive con l'obiettivo di minare l'istituto del referendum, ad esempio aumentando le firme necessarie per richiederlo (ma in questo caso era stato abbondantemente superato) e vietando la firma digitale. Noi invece lo difendiamo e facciamo rivendicazioni di senso opposto: dobbiamo abbassare il quorum, visto che quando fu deciso il 50% erano tempi in cui l'affluenza alle urne era del 90%, chi non votava era sanzionabile e non era ammesso nella pubblica amministrazione. Altrimenti si dovrebbero invalidare anche molte consultazioni elettorali con partiti e sindaci, dove sempre più spesso vota meno della metà degli elettori.
Astensionismo: più disgusto che obbedienza al governo
Il PMLI, che sostiene l'astensionismo elettorale per delegittimare le istituzioni borghesi nazionali e quelle imperialiste europee, si è prodigato in tutti i modi per far capire all'elettorato astensionista che in questo caso, con i referendum, si trattava di decidere direttamente se togliere di mezzo alcune leggi, che nel caso specifico danneggiano le lavoratrici e i lavoratori, e quindi era un dovere andare a votare 5 SÌ. Ma non si può negare che la disaffezione e il disgusto verso i partiti borghesi che occupano la scena politica e mediatica italiana, le istituzioni e i maggiori sindacati del regime capitalista neofascista, è così forte che la maggioranza delle urne sono state disertate. Con questo vogliamo dire che tra chi non è andato ai seggi, solo una parte lo ha fatto per seguire le indicazioni dei partiti di governo. Del resto ad alimentare questi disgusto e disaffezione è anche la condotta dei governi e delle istituzioni borghesi verso i risultati referendari, che vengono disattesi e negati anche in presenza del pronunciamento della stragrande maggioranza della popolazione. È successo così sull'acqua pubblica e sta succedendo ancor peggio sul nucleare, verso il quale il governo neofascista Meloni è deciso a puntare quantunque ci siano stati ben due pronunciamenti referendari che lo hanno bocciato.
Governo che da parte sua ha fatto di tutto per far fallire i referendum, cercando di ignorarli e poi schierandosi per l'astensione. Non chiamiamo però in ballo la “sacralità” del voto nella società borghese come hanno fatto molti esponenti politici e intellettuali progressisti. Tutti hanno scelto ad alcuni referendum l'astensione, PMLI compreso. Il fatto è che stavolta lo hanno fatto coloro che si appellano alla “volontà popolare”, al “responso delle urne”, che vogliono che “il popolo scelga direttamente” il capo dello Stato o del governo. Nel tentativo di coniugare l'essere al governo e il proprio ruolo istituzionale siamo arrivati perfino al grottesco: la premier che si reca al seggio ma non ritira le schede.
Fratelli d'Italia e Lega servi dei padroni
L'importante era non scendere nel merito dei quesiti referendari, in particolare da parte di Fratelli d'Italia e della Lega. I maggiori esponenti di questi due partiti hanno cercato di presentare i referendum soltanto come uno scontro interno al campo largo che “vuole regolare i conti” tra le sue correnti. “Il PD chiede di abrogare leggi che esso stesso ha voluto”, è stato il loro mantra ripetuto fino all'ossessione. Ma questi due partiti, oltre a Forza Italia, hanno sempre cercato di sviare sul fatto che sono favorevoli a quelle leggi, anche se una parte le ha volute Renzi (sorvoliamo sul fatto che poi sia definito di sinistra).
Se per il referendum sulla cittadinanza non hanno avuto remore di alcun genere a sostenere che la vogliono rendere il più difficile possibile, ben diverso era sostenere a viso aperto leggi che favoriscono i padroni, facendo cadere la maschera di “destra sociale” che “difende il popolo”. In questo senso, in particolare Fratelli d'Italia, ha dimostrato di essere un degno erede dei fascisti storici di Mussolini: a parole si presentano come difensori dei lavoratori e dei più poveri, in realtà non sono altro che servi dei padroni della peggior specie.
Dopo i risultati, i partiti di governo hanno cantato vittoria. FdI sulla pagine social ha scritto a caratteri cubitali “Avete perso”, continuando a non stare nel merito dei quesiti referendari e circoscrivendo tutto allo scontro tra “destra e sinistra”. Ma si va ancora oltre, valutando il mancato raggiungimento del quorum come un consenso al governo neofascista della Meloni. Tutti gli esponenti governativi evitano però di dire che gli elettori che hanno votato SÌ ai quattro referendum sul lavoro, quasi 13 milioni, sono più numerosi dei voti ottenuti dai partiti della compagine governativa alle elezioni politiche del 2022: 12,3 milioni.
Il PMLI e la campagna referendaria
Il PMLI, sulla base delle proprie forze, si è impegnato con un atteggiamento unitario e costruttivo (pur rimanendo con le sue specifiche convinzioni) nella propaganda dei 5 SÌ, da solo e, ogni volta che è stato possibile, assieme ad altre forze politiche e sindacali. Ove presente, da nord a sud, le compagne e i compagni – che ringraziamo calorosamente - sono scesi nelle piazze e tra le masse, senza mai tirarsi indietro: volantinaggi, banchini, gazebo, affissioni di locandine. Nel silenzio vergognoso dei media, che non hanno nemmeno pubblicato la posizione del PMLI.
Non possiamo dire lo stesso dei maggiori partiti e sindacati che sostenevano, e in alcuni casi avevano promosso, i referendum. Organizzazioni dalle forze infinitamente più grandi e radicate del PMLI, dalla Cgil al Pd, non hanno di certo messo “il cuore oltre l'ostacolo” come hanno fatto i marxisti-leninisti. Per non parlare della Uil, Movimento 5 Stelle e AVS, capaci solo di organizzare quasi esclusivamente qualche passerella ai loro segretari e dirigenti. Completamente assenti i sindacati di base, anche le sigle che sostenevano i SÌ non hanno preso nemmeno in considerazione l'idea di fronte unito a sostegno dei 5 referendum.
La strategia fallimentare di Landini e della Cgil
Adesso che le urne sono chiuse e i risultati, purtroppo sfavorevoli, acquisiti, possiamo riflettere sulla gestione di questi referendum. Come dice un vecchio proverbio, il ferro va battuto quando è caldo. Sono passati 10 anni dal Jobs Act, che ha introdotto le norme di cui alcuni referendum chiedevano l'abrogazione. La battaglia contro il “modello Marchionne” e le relazioni industriali e sindacali di stampo mussoliniano introdotte dall'allora Amministratore Delegato FCA e dal governo Renzi andava fatta subito e fino in fondo. È vero che la Cgil propose il referendum già nel 2016, poi respinto dalla Corte costituzionale, ma questo non è stato un buon motivo per tirare i remi in barca.
La battaglia principale andava fatta comunque nelle piazze. Il referendum risulta incisivo solo se diventa un supporto alla lotta di classe, che rimane lo strumento più efficace per ottenere le rivendicazioni o per respingere gli attacchi ai diritti delle lavoratrici e dei lavoratori. Invece dopo le prime timide proteste, negli anni a seguire la CGIL, con la sua linea della concertazione, ha avallato le politiche che hanno favorito il dilagare del precariato, la perdita del potere d'acquisto dei salari e delle pensioni, la deregolamentazione del mercato del lavoro che ha portato con se anche l'aumento degli infortuni e dei morti sul lavoro.
I referendum alla fine hanno sostituito la lotta di classe, non a caso la parola d'ordine della Cgil è stata “il voto è la nostra rivolta”. In questa modo i referendum già in partenza rischiavano seriamente di non raggiungere il quorum, come poi è avvenuto, rivelandosi un boomerang per la classe operaia e i lavoratori, creando scoramento e sfiducia, e dall'altro lato dando fiato al governo neofascista della Meloni. Una cosa è certa: da questi referendum esce sconfitta la strategia di Landini e della Cgil di cambiare l'Italia per via elettorale.
Solo il socialismo può cambiare l'Italia
Nella conferenza stampa del 9 giugno, subito dopo i risultati definitivi sull'affluenza, Landini ha detto che non si fermerà la lotta contro il precariato; bene, stremo a vedere. Ma più di una volta ha toccato un tema a lui molto caro: per il segretario generale della Cgil il problema principale dell'Italia è la crisi della democrazia, intendendo la sfiducia delle masse nelle istituzioni rappresentative borghesi che, secondo lui, va recuperata.
Sulla stessa lunghezza d'onda alcuni leader dei partiti della sinistra borghese che, ad urne appena chiuse, si sono spinti anche oltre, fino ad assegnare quei 13 milioni di SÌ ad una possibile alternativa di “centrosinistra” al governo Meloni. “E' con questa parte del Paese che vogliamo costruire l’alternativa.......... con loro continueremo a camminare", hanno detto Bonelli e Fratoianni di AVS, e ancora: “A noi tocca il compito più difficile, ma più urgente: ricostruire il legame di fiducia tra cittadini e istituzioni”.
Non siamo d'accordo. L'alternativa che occorre non quella di di dare un governo di “centro-sinistra” al regime capitalista neofascista e di far accettare alle masse le istituzioni e il sistema elettorale e parlamentare di questo regime.
Per i marxisti-leninisti per cambiare radicalmente l'Italia l'unica strada percorribile è quella rivoluzionaria dell'Ottobre: abbattere il capitalismo, la classe dominante borghese e il suo Stato, sostituendoli con il socialismo, il proletariato al potere e lo Stato proletario socialista. Dobbiamo quindi convincere i milioni del SÌ, le astenute e gli astenuti elettorali di sinistra e le masse proletarie e popolari che questa è la strada vincente per rompere le catene dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
11 giugno 2025