La rivolta di Genova mette a nudo che le carceri italiane sono l'inferno in terra

Dal corrispondente di Genova de “Il Bolscevico”
Voltaire sosteneva, a ragione, che la civiltà di un Paese si misura dalle sue carceri. Questa asserzione, che arriva dal passato, sembra coniata appositamente anche per i giorni odierni. C’è da immaginare, se le differenze temporali potessero venire rimosse, che la ducessa Meloni, in compagnia del suo fido camerata Piantedosi, avrebbe piacere a presentarsi, con la logica della sua propaganda populista, all’uscio dell’animatore dell’illuminismo Voltaire, per sistemargli, dopo avergli sventolato davanti al naso la legge approvata sulla “Sicurezza”, delle catene ai polsi.
Per ordine di tempo l’ultimo fatto emergenziale avvenuto in un istituto di pena italiano è accaduto il 4 maggio nel carcere di Genova Marassi, noto come le Case Rosse. La rivolta è stata inscenata da circa duecento detenuti. L’origine della protesta, a sentire i media locali e le spiegazioni veicolate da varie fonti, sarebbe stato il presunto stupro che un giovane detenuto avrebbe subito, da altri reclusi, all’interno di una cella. La vicenda è stata relegata come una questione di cronaca, di delinquenza; detenuti che salgono sui tetti, che si scontrano tra di loro, che vengono alle mani con gli agenti penitenziari intervenuti per sedare la rivolta, altri reclusi, praticamente tutti, che battono sulle inferiate e che sventolano, attraverso queste, drappi bianchi, che urlano la loro disperazione. Due piani del carcere distrutti e oltre 100mila euro di danni.
Dai media, nessun cenno sulle incivili condizioni carcerarie che subisce chi è recluso. Della disperazione senza apparente via di uscita di chi è detenuto neanche una parola. Non deve interessare. L’unico argomento che viene citato è ristabilire l’ordine pubblico; l’istituto carcerario è stato isolato, reparti di polizia in formazione antisommossa si sono schierati attorno alle Case Rosse, pezzi del quartiere di Marassi assediati; insomma, l’unica risposta è stata una prova muscolare, esibizione di pratica repressione.
Dati rilevati dall’associazione Antigone. La costruzione della struttura carceraria risale al 1900. La capienza regolamentare è di 535 detenuti, di questi tempi ne “ospita” 696 portando il tasso di affollamento al 130%. Nelle celle, fatiscenti, umide, con presenza di blatte, di topi, letti a castello sistemati a tre piani. Nell’anno 2024 ci sono stati 300 casi di autolesionismo, 2 suicidi e 2 detenuti deceduti per altre cause. E ora, in aggiunta alle condizioni sopra citate, sulle teste dei disperati detenuti rivoltosi, pende il decreto sicurezza appena approvato che prevede, in alternativa ai precedenti provvedimenti disciplinari, in caso di rivolte carcerarie nelle quali siano coinvolti più di tre detenuti, ma persino in caso di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini e per il mantenimento degli ordini impartiti, punizioni sul piano penale; reclusione da uno a cinque anni.
Che la Costituzione italiana sia aria fritta è risaputo, e chi afferma il contrario è in malafede, ma il grave è che lo è sapendo di esserlo. Da quando è stata promulgata di governi ne sono succeduti, tuttavia, nessuno di questi ha mai pensato di applicare una norma, in esso contenuta, riguardante il carcere (di “distrazioni” se ne possono citare altre, ma non è il momento). L’articolo 27 e in particolare il terzo comma afferma che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Ma questo è solo un appunto. Nella realtà assistiamo a una politica penale che invece di limitare le ipotesi di carcerazione, viene umiliata a logiche populiste introducendo nuovi reati e aumentando le pene per quelli esistenti.
Per affrontare il problema carcerario occorre ben altro, occorre coinvolgere i detenuti stessi. Il malessere, le difficoltà, l’emarginazione, non possono più essere una problematica che al colmo della sopportazione si vede costretta a sfociare, periodicamente, in rivolte con accumuli di pena.
Dev’essere data la possibilità al recluso di costituire liberamente dei Comitati, in modo di fare sentire la loro voce di esseri umani, renderli attori principali del loro vivere dentro il carcere, del futuro reinserimento nella società e quindi rovesciare l’idea tanto medioevale dei penitenziari come luogo di sofferenza, di disagio psicologico, di emarginazione, in una parola di “discarica sociale”.
Un primo passo, ma è solo un primo passo tuttavia necessario, è intervenire sul sovraffollamento, causa principale di suicidi, di autolesionismo, anche di rivolte, con amnistia, indulto, pene alternative. Il passo successivo è il coinvolgimento.
Non è difficile conoscere cosa sia in definitiva l’inferno. È sufficiente sostare, o visitare, un carcere.

11 giugno 2025