Intervento all'assemblea Fisac Cgil
Chiavacci: il referendum conferma la strategia fallimentare di Landini e della Cgil

Pubblichiamo qui di seguito il testo dell'intervento (fra l'altro molto applaudito) pronunciato dal compagno Enrico Chiavacci il 19 giugno scorso nell'assemblea generale provinciale fiorentina della FISAC CGIL. Lo stesso intervento sarà peraltro pronunciato anche nella seduta del 30 giugno dell'Assemblea Generale Nazionale della FISAC CGIL a Roma. Care compagne e cari compagni,
oggi mi concentrerò sui risultati referendari. Prima però, due brevi e didascaliche note sulla situazione internazionale toccata nella relazione introduttiva.
A Gaza è in corso un genocidio e la CGIL deve iniziare a denunciare con chiarezza che siamo oltre la pulizia etnica; e soprattutto la parola d’ordine 2 Stati 2 popoli è insufficiente ed incapace di risolvere il problema nell’area che rimane lo stato sionista d’Israele. “Vale più un’oncia di azione che una tonnellata di teoria ”, è una frase di Engels ma che è utile per dire che per fermare Netanyahu è da tempo arrivato il momento di agire, anche se nessuno nella pratica muove un dito, tranne gli studenti, i gruppi palestinesi e gli organismi che li appoggiano con chiarezza, che settimanalmente sono nelle piazze di tutta Italia a sostegno della resistenza palestinese senza distinzione di sorta.
L’Iran è sotto attacco imperialista e la sua resistenza in ogni modalità venga concretizzata, va sostenuta al di là della natura del governo in carica. Questo è il principio di chi realmente si definisce antimperialista; vale per la Palestina, vale per l’Ucraina ed anche per l’Iran che, fra l’altro, ha pieno diritto, nella sua ricerca nucleare.
Venendo ai referendum, a livello territoriale, ho partecipato alle attività del comitato della Valdisieve (e mi conforta poco il quorum raggiunto a Pontassieve), e per oltre 2 mesi ho battuto le scrivanie di 7 BCC toscane raccogliendo anche un paio di iscritti che sono già qualcosa.
Provando invece a fare un’analisi generale, parto col constatare che negli ultimi 30 anni i referendum abrogativi (dieci consultazioni) solo una volta hanno raggiunto il quorum, nel 2011 per l'acqua pubblica e nucleare.
Stavolta a destra hanno colto l'occasione per minare l'istituto del referendum; noi invece abbiamo il compito di difenderlo strenuamente, rilanciando rivendicazioni di senso opposto, a partire dalla riduzione del quorum, visto anche che quando fu fissato il 50% erano tempi in cui l'affluenza alle urne era del 90%, chi non votava era sanzionabile e non era ammesso nella pubblica amministrazione.
Altrimenti dovremmo riservare la stessa sorte anche alle sempre più numerose consultazioni elettorali con partiti e sindaci, annullandole se vota meno della metà degli aventi diritto. Astensionismo: più disgusto che obbedienza al governo
Penso che per chiunque sia difficile oggi negare che il disgusto verso i partiti che occupano la scena politica e mediatica italiana, le istituzioni ed anche la disaffezione nei confronti dei sindacati, in generale è così forte da non far capire alla maggioranza degli italiani che il voto referendario è diverso da quello politico, perché diretto, specifico e senza deleghe in bianco.
Del resto ad alimentare questo distacco è stata anche la condotta dei governi verso i risultati referendari stessi che vengono disattesi e negati anche quando si vince: pensate all'acqua ancora privata ed al nucleare sul quale Meloni punta decisa in ambito energetico ignorando l’espressione referendaria del 2011.
Personalmente non condivido gli appelli alla “sacralità” del voto in questa società neoliberista e capitalista come ha fatto in toto il “centro-sinistra” ed in parte anche la CGIL; è certamente ancor più grave però che l'astensione stavolta sia stata rivendicata da un esecutivo che vuole l’elezione diretta del capo dello Stato o del Governo.
E chiudo sul governo – per me di stampo neofascista e pertanto da abbattere con la piazza prima che faccia altri danni cancellando tutte le più elementari libertà democratico-borghesi – chiudo dicendo che in ogni caso i 13 milioni di SI sono comunque di più dei 12,3 che hanno messo al potere Meloni. La campagna referendaria
Per quanto riguarda la campagna, nei miei territori ho visto un gran prodigarsi dello SPI CGIL, dell'ANPI e di militanti di forze politiche e sociali della sinistra extraparlamentare su tutte il PMLI, ma non posso dire lo stesso dei maggiori partiti che sostenevano i referendum, che da noi si sono limitati a qualche post sui media nella migliore delle ipotesi, salvo casi così rari da confermare questa regola.
Qui da noi come nel quadro nazionale non si può certo dire che PD, AVS e 5 Stelle abbiano gettato “il cuore oltre l'ostacolo”; poiché in generale sono stati capaci di organizzare solo qualche passerella ai loro segretari e dirigenti. Per non parlare della Uil e dei sindacati di base, più preoccupati di non tirare il filo alla CGIL che a dare gambe al successo dei SI.
Sull'organizzazione dei comitati vorrei dire un paio di cose, ma taglio. La strategia fallimentare di Landini e della Cgil
Adesso che le urne sono chiuse e i risultati purtroppo sfavorevoli acquisiti, credo che sia nostro dovere riflettere in maniera trasparente e sincera anche sulla gestione di questi referendum.
Parto dall’assunto che “il ferro va battuto quando è caldo”. E allora, come non ricordare che sono passati 10 anni dal Jobs Act, che ha introdotto le norme di cui alcuni referendum chiedevano l'abrogazione. La battaglia contro il “modello Marchionne” e le relazioni industriali e sindacali di stampo corporativo e mussoliniano introdotte dall'allora Amministratore Delegato FCA e dal governo Renzi andava fatta subito e fino in fondo.
È vero che la Cgil propose il referendum già nel 2016, poi respinto dalla Corte costituzionale, ma questo non è stato un buon motivo per tirare i remi in barca come invece abbiamo fatto.
In ogni caso la battaglia principale andava fatta nelle piazze e non nelle urne, poiché il referendum risulta incisivo solo se diventa un supporto alla lotta di classe (perché quello sono i rapporti contrattuali fra padroni e operai, impiegati, o fra datori di lavoro e dipendenti che dir si voglia), che rimane ancora, dati storici alla mano lo strumento più efficace per rivendicare diritti e per respingere gli attacchi che sono arrivati per mano di ogni governo che si è succeduto, nessuno escluso.
Invece dopo le prime timide proteste (4 ore di sciopero), negli anni a seguire la CGIL, con la sua linea della “concertazione”, ha di fatto normalizzato le politiche che hanno favorito il dilagare del precariato, la perdita del potere d'acquisto dei salari e delle pensioni, e la deregolamentazione del mercato del lavoro che ha portato con sé anche l'aumento degli infortuni e dei morti nei cantieri e nelle fabbriche.
I referendum alla fine hanno sostituito la lotta di classe, e non a caso la parola d'ordine della Cgil stavolta è stata “il voto è la nostra rivolta”, una parola d'ordine sbagliata, che ho diffuso solo per la responsabilità unitaria d'organizzazione che credo di avere, e perchè circoscritta a questa tornata referendaria nel nome dell’unità di azione per la vittoria dei Sì.
Purtroppo è anche vero che adesso questa consultazione si rivela un boomerang per la classe operaia e i lavoratori, creando ulteriore scoramento e sfiducia, e dall'altro lato la stampa di regime dà fiato al governo neofascista Meloni che ci marcia strumentalmente sopra.
Per me da questi referendum (che si sommano alle leggi d’iniziativa popolare che giacciono polverose su qualche scaffale romano senza che nessun partito se ne faccia carico) esce sconfitta la strategia di Landini e della Cgil di cambiare l'Italia – anche solo su specifiche questioni, figuriamoci per il resto - per via prettamente elettorale ed istituzionale. Solo il socialismo può cambiare l'Italia
Nella conferenza stampa del 9 giugno Landini ha toccato un tema a lui molto caro, la cosiddetta “crisi della democrazia”, intendendo la sfiducia delle masse nelle istituzioni rappresentative che, secondo lui, va recuperata.
Immagino che questo parere sia condiviso in larga parte anche in questa sala.
Sulla stessa lunghezza d'onda alcuni leader dei partiti della sinistra parlamentare che, ad urne appena chiuse, si sono spinti oltre, fino al punto di assegnare opportunisticamente quei 13 milioni di SÌ ad una possibile alternativa di “centrosinistra” al governo Meloni.
Io penso invece che l'alternativa che dovrebbe proporre la CGIL non è quella di appiattirsi ancora una volta auspicando un governo di “centro-sinistra” che guidi questo sistema capitalista, identificando così nella “democrazia” l’esclusiva accettazione del suo sistema elettorale e parlamentare, anche perché proprio da questo sistema sono uscite solo riforme neoliberiste ed antipopolari, di distruzione dello stato sociale e di aumento dei profitti privati, di sempre maggiore libertà per i padroni e di supersfruttamento o disoccupazione per giovani, donne, lavoratrici e lavoratori. (lasciando perdere le guerre, riarmo ecc.).
Ora, se il mio orizzonte personale per uscire da tutte le contraddizioni frutto del sistema capitalista che va abbattuto è il socialismo, credo che quello della CGIL alla luce di questa ennesima lezione possa essere quantomeno il consolidare la propria indipendenza e recuperare quale sua stella polare la lotta di classe e non l'impalpabile riformismo, il cui principale risultato è sempre stato quello di togliere coscienza ai lavoratori ed alle lavoratrici, rendendoli poi incapaci di seguirti anche nelle battaglie più semplici e concrete, come quelle in ballo nella tornata dell'8 e 9 giugno.
Impresa titanica?
“Sarebbe bello ma è difficile”??
Ecco, allora iniziamo rapidamente a lavorare in questa direzione perchè per invertire la tendenza e recuperare, il tempo è quasi scaduto.
Animo e fiducia!
Buon lavoro a tutte e a tutti.

25 giugno 2025