Guerra commerciale tra Usa e Ue sui dazi
Trump stanga i paesi dell'Ue. Meloni cerca di mediare
“Manderò lettere, grandi, belle lettere”, aveva scritto il fascioimperialista Trump sul social Truth
, il suo personale balcone di Palazzo Venezia, annunciando il secondo tempo della guerra dei dazi scatenata contro il resto del mondo il 2 aprile scorso, poi rinviata al 9 luglio, con tariffe “ridotte” temporaneamente al 10%, in attesa di negoziare nuovi accordi con più di 170 paesi minacciati di dazi fino al 50%.
E così è stato. Alcune, anzi, “10-20 spedite già da oggi”, ha dichiarato Trump il 4 luglio, festa nazionale americana; altre, con dazi annunciati tra il 25% e il 40%, dirette a paesi come Corea del Sud, Giappone, Malesia, Bangladesh, Sudafrica, Thailandia e Serbia, sono state rese note dalla Casa bianca il 7 luglio, ma la cui applicazione partirà dal 1° agosto per favorire i negoziati con i leader mondiali: “che lo implorano di raggiungere un accordo”, secondo la sua portavoce Karoline Leavitt. In effetti nei trascorsi 90 giorni di moratoria gli accordi commerciali raggiunti erano stati solo due, uno al 10% con il Regno Unito del fedelissimo Starmer, e un altro al 20% col Vietnam, che sale al 40% per le merci dirette in Usa che transitano da quel Paese. Mentre gli accordi con Messico, Canada e Cina, incontrano ancora difficoltà e non sono stati del tutto chiusi. Da qui il rinnovato ultimatum del dittatore fascista, con la promessa ribadita il 4 luglio al popolo americano, che tutti i paesi “cominceranno a pagare il 1° agosto e da quella data i soldi cominceranno ad entrare negli Usa”.
La lettera di Trump alla Ue con dazi al 30%
Il 12 luglio la lettera di Trump è arrivata anche all'Unione europea, indirizzata alla “Gentile Signora presidente” della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Da aprile il dazio applicato su tutte le merci importate dall'Ue era quello provvisorio del 10%, eccetto le auto già tassate al 25% e l'alluminio e l'acciaio al 50%. Nella trattativa che si trascina da tre mesi, caduta subito l'illusione di “zero dazi reciproci su tutti i prodotti industriali”, come proponeva la von der Leyen, quest'ultima si sarebbe accontentata di mantenere i dazi al 10%, speranza alimentata anche dalla neofascista Meloni, che li definiva “sostenibili” per l'Ue e per l'Italia, vantandosi di poter ottenere questo trattamento di favore grazie al suo rapporto “privilegiato” con Trump.
Tanto più duro è stato quindi il colpo per la von der Leyen e la sua Commissione (e lo smacco politico per la Mussolini in gonnella), nell'apprendere che la tariffa pretesa dal Mussolini d'oltreoceano, in mancanza di un accordo entro il 1° di agosto, era invece di “solo” il 30%, tariffa da lui considerata “di gran lunga inferiore a quanto necessario per eliminare il divario di deficit commerciale che abbiamo con l'Ue”. E per giunta, accompagnata dall'ingiunzione che l'Ue “consentirà un accesso completo e aperto al mercato degli Stati Uniti, senza che ci vengano addebitate tariffe doganali, nel tentativo di ridurre l'elevato deficit commerciale”; nonché dalla minaccia che “se per qualsiasi motivo decidete di aumentare le vostre tariffe e di reagire, l'importo, qualunque sia l'aumento scelto, verrà aggiunto al 30% che applichiamo”.
Un vero e proprio diktat in stile mafioso, insomma, da quel gangster che è sempre stato fin dall'inizio della sua nera carriera, motivato a suo dire da un deficit commerciale Usa nei confronti dell'Ue, generato “dalle Sue politiche tariffarie e non tariffarie e dalle Sue barriere commerciali”, che rappresentano “una grave minaccia per la nostra economia e, di fatto, per la nostra sicurezza nazionale!”. La lettera si conclude poi con l'avvertimento che “se desiderate aprire i vostri mercati commerciali, finora chiusi, agli Stati Uniti ed eliminare le vostre politiche tariffarie e non tariffarie e le barriere commerciali, potremmo valutare una modifica a questa lettera. Queste tariffe potrebbero essere modificate, al rialzo o al ribasso, a seconda del nostro rapporto con il vostro Paese”.
Sconcerto e divisioni nelle cancellerie europee
La gravità del colpo è stata tanto più inaspettata dopo che da parte europea erano state fatte concessioni pesanti a Trump per ingraziarselo, come la rinuncia nell'ultimo G7 alla tassa minima alle multinazionali, l'accettazione del folle incremento delle spese militari al 5%, essenzialmente a beneficio dell'industria bellica Usa, e l'impegno ad aumentare l'acquisto del costosissimo gas americano. Perciò le reazioni europee, passato l'iniziale smarrimento, si sono divise su due fronti, tra chi chiede una risposta dura, come Francia, Austria e Danimarca, in parte condivisa anche dal premier spagnolo Sanchez, e quella di chi invece, come Germania e Italia (più esposte nell'export verso gli Usa), condivisa anche da Irlanda, Ungheria e le tre repubbliche baltiche, chiede una risposta “pragmatica e realistica” utilizzando il margine di tempo fino al 1° agosto per intensificare la trattativa per strappare a Trump un accordo “migliore possibile”, rinviando ogni contromisura a dopo un eventuale fallimento. Sapendo però che la base di partenza non è più il 10 ma il 30%, che rappresenterebbe un colpo durissimo, se non mortale, per molte imprese europee, in particolare dei settori farmaceutico, chimico, dell'automotive, dell'acciaio e dell'agroalimentare.
Macron capeggia la linea “dura”, convinto che una risposta debole non farebbe che incoraggiare la protervia di Trump, chiedendo che la Commissione acceleri l'attivazione “di contromisure credibili, mobilitando tutti gli strumenti disponibili, incluso il meccanismo anticoercizione”. Che consisterebbe nel mettere contro-dazi alle big tech americane del digitale (circuiti finanziari dei pagamenti come carte di credito e Paypal, Google, Microsoft, Amazon ecc.), le quali fanno affari d'oro in Europa riducendo fortemente il deficit commerciale Usa, e che perciò Trump vede come il fumo negli occhi. Le altre misure a cui allude il galletto francese sono il primo pacchetto di dazi per 21 miliardi, già rinviato più volte, e il cosiddetto bazooka, cioè un secondo e più consistente pacchetto da 95 miliardi (poi ridotto a 72), che l'Ue tiene in serbo in caso di fallimento del negoziato.
Ma la von der Leyen, e con lei la Commissione, sposa la linea morbida italo-tedesca, e nella risposta a Trump, sottolineando che “l'imposizione di dazi del 30 percento sulle esportazioni dell'Ue sconvolgerebbe le principali catene di approvvigionamento transatlantiche, a scapito delle imprese, dei consumatori e dei pazienti su entrambe le sponde dell'Atlantico”, si limita a ribadire che “restiamo pronti a continuare a lavorare per raggiungere un accordo entro il primo agosto. Allo stesso tempo, adotteremo tutte le misure necessarie per salvaguardare gli interessi dell'Ue, inclusa l'adozione di contromisure proporzionate, se necessario”.
Pesanti ripercussioni sulle masse italiane
Quanto alla premier neofascista italiana, sorvolando sul fallimento della sua politica di “appeasement” col suo alleato di ferro, si attacca al tram von der Leyen-Merz dando “pieno sostegno agli sforzi della Ue”, e continuando a ripetere come un mantra che confida “nella buona volontà di tutti gli attori in campo per arrivare a un accordo equo (sic), che possa rafforzare l'Occidente nel suo complesso”. Come se questa guerra dei dazi, che potrà concludersi solo con un vincitore e un vinto, o a loro reciproco danno, possa “rafforzare” entrambi i contendenti in campo.
La “via d'uscita” sostenuta dalla premier “sovranista”, tallonata anche dalla concorrenza a destra del turbo-trumpiano Salvini, sarebbe quella che l'Ue conceda a Trump l'allentamento delle regole a salvaguardia della qualità dei prodotti e della salute che limitano l'importazione di merci americane, in cambio di un “contenimento” delle sue tariffe. Clamorosa, a questo proposito, l'idea geniale del ministro dell'Agricoltura Lollobrigida, di importare la carne americana, notoriamente piena di ormoni e altre schifezze, per farne bresaola da riesportare negli Usa.
In realtà, comunque si concluda la partita, le conseguenze per le masse popolari italiane saranno pesantissime. Gli Usa sono il secondo mercato di esportazione, dopo la Germania, per i prodotti italiani, in particolare nei settori farmaceutico, dei macchinari, dell'automotive, della moda e dell'agroalimentare. L'export italiano è di 65 miliardi, con un avanzo di 39 in costante crescita, e tutte le stime delle varie organizzazioni imprenditoriali concordano nel dire che il contraccolpo sarebbe devastante già con il “sostenibilissimo” dazio del 10% auspicato dalla ducessa: pari, secondo una stima del Censis fatta per Confcooperative, a 68 mila occupati in meno e una perdita di 18 miliardi di valore, il 25% dell'export. Secondo la Svimez, se invece i dazi arrivassero davvero al 30% (lasciando le attuali esenzioni per alcuni comparti come il farmaceutico), i posti di lavoro persi sarebbero oltre 150 mila (a tempo pieno), di cui quasi 13 mila al Sud, e la già asfittica crescita italiana perderebbe altri 9 miliardi di di Pil. Se poi il 30% fosse generalizzato, il calo di Pil salirebbe a quasi 11 miliardi e i posti persi a 178 mila, di cui 16 mila al Sud.
Gli obiettivi della guerra dei dazi di Trump
Quali sono le motivazioni che spingono Trump a scatenare la guerra dei dazi, e quali obiettivi si propone di conseguire con essa? La ragione fondamentale alla base di questa guerra è il tentativo di reagire alla profonda crisi dell'imperialismo a stelle e strisce, che per decenni ha goduto dei frutti della globalizzazione imperialista per vivere al di sopra delle proprie risorse, senza preoccuparsi del debito sempre crescente, che alimenta a sua volta il crescente disavanzo della bilancia commerciale. Un edificio che ora minaccia di collassare sotto il peso delle folli spese per mantenere gli insostenibili consumi della società americana e la sua soverchiante potenza militare sulla terra, sugli oceani e nello spazio, le sue guerre infinite e le sue centinaia di basi militari in tutto il mondo, che ne garantiscono l'egemonia globale.
Di conseguenza, il primo obiettivo di Trump, da lui stesso dichiarato nel discorso per il “liberation day” del 2 aprile, è quello di “utilizzare trilioni e trilioni di dollari (dei dazi, ndr) per ridurre le nostre tasse e pagare il nostro debito nazionale”. Cioè finanziare quel “Big Beautiful Bill” con cui ha regalato il più grande taglio delle tasse agli straricchi, tagliando però anche l'assistenza sanitaria e i sussidi a milioni di poveri. E nel contempo tentare di abbassare il mostruoso debito statale da 33,4 trilioni di dollari, che divora 1.000 miliardi di interessi all'anno e sorretto solo dalla forza del dollaro come moneta di riferimento internazionale, il che costringe gli altri Paesi a accantonare quote consistenti di dollari per poter intervenire sui mercati internazionali.
Il suo secondo obiettivo è quello promesso in campagna elettorale: cioè costringere il resto del mondo, se vuole evitare la mannaia dei dazi, a investire nella reindustrializzazione degli Usa, per rivitalizzare la manifattura americana impoverita da decenni di delocalizzazioni all'estero e concentrazioni dell'economia verso l'alta tecnologia, i servizi digitali e la finanza. Questa politica è rivolta soprattutto contro l'Europa e la Cina, puntando a risucchiare la base produttiva e i capitali di investimento alla prima, e a riportare in casa le produzioni americane delocalizzate nella seconda, oltre ad arginare la penetrazione delle sue merci a basso costo negli Usa. Per quanto riguarda l'Italia i frutti di questa politica si vedono con la recente acquisizione di Kellog's da parte di Ferrero, che su 50 mila dipendenti ormai ne mantiene solo 6 mila in Italia, puntando sempre più a potenziare la sua base produttiva e occupazionale sul suolo americano. Lo stesso stanno facendo Stellantis e altre imprese italiane. E va ricordato che la premier neofascista ha promesso a Vance investimenti miliardari dall'Italia.
Il suo terzo obiettivo è di natura più strettamente politica, ed è quello di utilizzare i dazi come una clava per minacciare, intimidire e ridurre ai sui voleri le altre nazioni, un'altra arma molto efficace da affiancare a quella delle sanzioni primarie e secondarie di cui fa già largo uso. É quel che Trump sta facendo contro il Brasile di Lula, minacciandolo di dazi al 50%, nonostante che il Brasile importi dagli Usa più di quello che esporta, solo per difendere il suo amico Bolsonaro dal processo che lo riguarda per il tentato golpe. Nello stesso senso vanno anche le minacce di dazi contro i paesi BRICS perché si propongono di sfidare la supremazia del dollaro. Tant'è che a margine del recente vertice dei BRICS tenutosi a Rio de Janeiro Trump ha dichiarato: “I BRICS sono stati creati per indebolire il dollaro e toglierlo dal sistema monetario. Se perderemo il dollaro standard mondiale, sarebbe come perdere una guerra, una grande guerra mondiale”.
Allo stesso tempo la guerra dei dazi è anche un riconoscimento implicito del declino economico della superpotenza americana, che il fascioimperialista Trump spera di invertire tornando a una politica protezionista, nel tentativo di rivitalizzare l'economia dell'indebolito imperialismo a stelle e strisce, anche a spese dei suoi alleati imperialisti europei e della “stabilità” dell'economia globalizzata, pur di mantenere l'egemonia mondiale e arginare l'ascesa della potenza economica del socialimperialismo cinese, che mira a strappargliela.
La guerra dei dazi è quindi parte integrante della guerra commerciale in atto, un altro fattore che accelera la terza guerra mondiale tra l'imperialismo dell'Est e quello dell'Ovest per decidere quale dei due governerà il mondo nel XXI secolo. E a pagarne doppiamente il prezzo saranno le masse popolari che, prima, saranno costrette a pagare più care le merci per il loro sostentamento, poi, vedranno colpiti i servizi sociali ed essenziali a tutto vantaggio dell'economia di guerra, e infine diventeranno carne da cannone della guerra mondiale imperialista.
23 luglio 2025