Posta dal tribunale di Milano sotto amministrazione giudiziaria la società che produce borse per soli ricchi
Made in Italy del lusso prodotto da schiavi cinesi
Lo scorso anno il Tribunale di Milano aveva messo in amministrazione giudiziaria per caporalato e lavoro nero la casa di moda Alviero Martini, con sede nella stessa città meneghina. Dall’inchiesta condotta dalla Procura del capoluogo lombardo e dai carabinieri del nucleo ispettorato del lavoro risulterebbe che l’azienda ha affidato l’intera produzione, senza mai effettuare alcuna ispezione o controllo, a società terze, che a loro volta, pur vigendo il divieto di subappalto, esternalizzavano le commesse a opifici gestiti da cittadini cinesi dove i lavotratori, anch'essi cinesi o pakistani, venivano trattati da schiavi.
L’azienda sarebbe ritenuta “incapace di prevenire e arginare fenomeni di sfruttamento lavorativo nell’ambito del ciclo produttivo non avendo mai effettuato ispezioni e verifiche sulla filiera produttiva per appurare le reali condizioni lavorative, ovvero le capacità tecniche delle aziende appaltatrici, tanto da agevolare (colposamente) soggetti raggiunti da corposi elementi probatori in ordine al delitto di caporalato”. I giudici, nei loro atti, affermano che nella “Alviero Martini spa vi è una cultura di impresa gravemente deficitaria sotto il profilo del controllo, anche minimo, della filiera produttiva della quale la società si avvale”.
L’azienda di moda Alviero Martini, nota sopratutto per borse, scarpe, marsupi e cinture in pelle caratterizzate da stampe con carte geografiche, è stata fondata nel 1991 a Milano dall’omonimo stilista italiano, che l’ha poi ceduta nel 2003 alla società Final dell’imprenditrice Luisa Angelini, che ne detiene tuttora il controllo. Stando alla ricostruzione dei carabinieri, per abbattere i costi e massimizzare i profitti di una borsa venduta in negozio a diverse centinaia di euro se non di più, diverse aziende esternalizzano la produzione a una ditta appaltatrice, che però in realtà non era in grado di garantire la capacità produttiva, né in termini di qualità né di tempistiche, e quindi si rivolgeva a sua volta a opifici clandestini cinesi, “in qualche caso con l’interposizione di una società intermediaria a volte italiana e a volte anch’essa cinese”.
Nel caso specifico, una borsa del valore di 20 euro, usciva a 30 euro dall’altro subappaltatore interposto con la società appaltatrice ufficiale; la quale fatturava la borsa a 50 euro al brand di alta moda, che infine la metteva in vendita in negozio a 350 euro”. Tutti i soggetti della catena dovevano guadagnarci, anche se la parte del leone la faceva proprio l'Alviero Martini. Per fare ciò le lavorazioni avvenivano in ambienti senza la minima traccia di regolarità, con l'utilizzo di lavoratori senza permesso di soggiorno, alla produzione anche la notte e la domenica, pagati una miseria, in luoghi insalubri, a volte senza aria né luce, che sono anche dormitori fatti di materassi sporchi per terra, dove i lavoratori sono costretti a mangiare, spesso a contatto con i prodotti chimici usati nella produzione. Una di queste ditte in subappalto, la Crocolux, proprio il maggio scorso era stata teatro della morte di Ruman Abdul, schiacciato dalla caduta di un macchinario.
Come avviene sempre in questi casi, l'Alviero Martini ha cercato di giustificarsi affermando che nessuno dei suoi manager è stato indagato, come la società si attenga a un preciso “codice etico”, e in ogni caso “Laddove emergessero attività illecite effettuate da soggetti terzi, introdotte a insaputa della Società nella filiera produttiva, assolutamente contrari ai valori aziendali, si riserva di intervenire nei modi e nelle sedi più opportune, al fine di tutelare i lavoratori in primis e l’azienda stessa”. Viene però smentita dalla Procura, secondo la quale, con gli accertamenti “si è disvelata una prassi illecita così radicata e collaudata, da poter essere considerata inserita in una più ampia politica d’impresa diretta all’aumento del business”. E ancora: “le condotte investigate non paiono frutto di iniziative estemporanee ed isolate di singoli, ma di una illecita politica di impresa”.
La procura di Milano, pur avendo condotto indagini meritevoli, ha scoperto “l'acqua L'utilizzo di manodopera sottopagata e, in certi casi, in condizioni di semi-schiavitù, è una prassi consolidata nel settore dell'abbigliamento, anche quello di alto livello anzi, proprio qui si ottengono i maggiori profitti. Dalle sarte del Salento che lavorano in piccole aziende o da casa per grandi firme, ai calzaturifici del Veneto che producono scarpe di lusso, al tessile di Prato che produce per famosi brand
internazionali. Potremmo dire, con uno slogan, alta moda, bassi salari.
Infatti le lavoratrici e i lavoratori in appalto della MontBlanc, con il sostegno del sindacato SiCobas, hanno lottato contro i licenziamenti annunciati dal marchio controllato dalla finanziaria Richemont. Operai italiani, cinesi e pakistani che lavorano più di 10 ore al giorno per poco più di mille auro al mese per produrre borse che nei negozi del lusso costano il doppio dei loro stipendi. Manodopera in appalto che ai primi controlli, oppure alla presa di coscienza dei lavoratori e alla richiesta di maggiori diritti e salari dignitosi, come nel caso della MontBlanc, vengono subito scaricati e gettati in mezzo alla strada.
Altro che etica, “mission aziendale”, responsabilità sociale, sostenibilità. Le firme dell'alta moda cercano di darsi un'immagine presentabile e accattivante, ma dietro la facciata c'è sempre la regola numero uno del sistema capitalistico, ossia la ricerca del massimo profitto.
23 luglio 2025