Analisi di classe dei mali che il capitalismo provoca in agricoltura
LA CRISI DELL'AGRICOLTURA
A BELPASSO E NEL CATANESE
Supersfruttamento,
miseria, arretratezza ed emigrazione affliggono le masse popolari nelle campagne
ANCHE SE LA LOTTA SARA' LUNGA E DURA, OCCORRE FIDUCIA NEL SOCIALISMO, NEL PMLI E
NELLE NUOVE GENERAZIONI
Dal nostro corrispondente
di Belpasso
Quanto segue è il risultato di un
dialogo tra il compagno Francesco Campisi e un lavoratore della terra, Mario, che opera
per conto terzi e che è esperto della materia poiché da una vita lavora nel settore
primario. La speranza è di riuscire a illustrare in modo chiaro e sintetico la situazione
agricola del territorio di Belpasso e dei paesi limitrofi e anche la condizione di
sfruttamento a cui sono sottoposti i lavoratori agricoli e braccianti.
Belpasso è una cittadina di 20.000 abitanti. Comprende un vasto territorio che va dalle
pendici dell'Etna e giunge fino a Lentini e alla piana di Catania. Più che altro è un
paese di piccoli coltivatori diretti (piccoli proprietari terrieri), i quali possiedono
per la maggior parte una salma di terra (nota bene: una salma di terreno corrisponde a 16
tumoli. Un tumolo corrisponde a 2.140 metri quadri). Si può ritenere grande proprietario
chi possiede almeno 50 salme di terreno. Proprietari di questo tipo a Belpasso ce ne sono
4 o 5.
I più importanti paesi dove è prevalente l'agricoltura sono: Paternò, Biancavilla,
Adrano, Bronte, Acireale, Ramacca. In passato avevano maggiore importanza, oggi molto
meno! Questo a causa della crisi in agricoltura, dell'emigrazione e del passaggio di una
quantità interminabile di lavoratori agricoli in altri settori, come industria,
terziario, ecc.
I prodotti agricoli che ancora producono reddito sono gli ortaggi, il fico d'india e il
pistacchio, sebbene quest'ultimo subisca una forte concorrenza sul mercato da parte della
California.
I frutti di montagna che da queste parti si producono (mele, pere, ciliege, pesche)
permettono di vivere a coloro che hanno questi frutteti.
I prodotti invece che subiscono una forte crisi sono prevalentemente nei seguenti settori:
1) cerealicolo (frumento);
2) agrumicolo (arance, mandarini, limoni);
3) olivicoltura;
4) viticoltura;
5) mandorlo coltura.
Vediamo uno per uno i motivi della loro crisi.
1. La crisi cerealicola riguarda la produzione del frumento. I produttori si lamentano
perché il grano che vendono ai commercianti viene pagato a bassissimo prezzo (250 lire al
chilogrammo). Da considerare che il prezzo del pane da queste parti va dalle 2.300 alle
2.600 lire al kg, a seconda della qualità.
Se si considera la concimazione, la semina, la trebbiatura, il costo del grano che viene
acquistato per la semina presso il consorzio agrario che è di L. 2.500 al chilogrammo, al
produttore non rimane nessun guadagno. Ecco perché egli cessa di fare questa attività o
stenta a reggere.
2. Quello dell'agrumicoltura è un settore in crisi cronica, tutti gli anni, in modo
particolare per le arance. Il piccolo coltivatore diretto che possiede un piccolo
appezzamento di terreno adibito a piantagione di arance, non avendo la possibilità di
collocare il suo prodotto direttamente sui mercati delle grandi città del nord Italia, o
anche in Sicilia, cade vittima dei grandi commercianti di agrumi, i quali pagano questo
prodotto (arance) al contadino a prezzi irrisori: 250 lire al kg, al massimo 500 lire se
sono di qualità pregiata (esempio Tarocchi). Questi commercianti comprano il prodotto
direttamente sulla pianta e hanno con loro apposite squadre di raccoglitori di arance. Al
contadino non rimane guadagno, anzi quasi sempre resta fregato perché non recupera
neanche le spese dei lavori, del concime e dell'acqua che egli paga di tasca propria.
Dunque, il profitto se lo spolpano il commerciante e tutti gli intermediari che ci sono
fin quando il prodotto arriva al consumatore. Il contributo della Cee (Comunità economica
europea) è irrisorio.
A parte questo strozzinaggio dei commercianti c'è da aggiungere che il prodotto non tiene
il prezzo perché il mercato è saturo grazie alle importazioni di arance provenienti
dalla Spagna, dal Marocco, dal Portogallo.
3. Anche l'olivicoltura è colpita dalla crisi. L'olio ha un prezzo bassissimo perché sul
mercato italiano arriva olio di oliva dalla Tunisia e da altri Paesi mediterranei a un
prezzo assai più basso di quello prodotto in Italia. Anche qui il contributo della Cee
non è che un po' di ossigeno.
Il nostro territorio (cioè le campagne dove si coltiva l'olivo) è un terreno impervio,
"sciaroso'' (molto pietroso, pieno di macigni di pietra lavica), quindi accidentato.
Ciò comporta molta perdita di tempo, durante tutte le fasi lavorative - concimaggio,
rimonta (cioè quando si pota l'albero) e infine la raccolta. Di conseguenza anche le
spese sono superiori rispetto a quando l'oliveto si trova in pianura e nelle zone
argillose.
A queste si aggiungono le spese per la macina delle olive. L'oleificio fa pagare 250 lire
per ogni chilogrammo di olive che macina. Quest'anno, ad esempio, un "capiso'' di
olio (il capiso equivale a kg. 16 di olio, cioè 17 litri in quanto l'olio è più leggero
del peso dell'acqua). Ebbene, 17 litri di olio d'oliva vergine quest'anno nella nostra
zona costano da 140 a un massimo di 150mila lire. Da ciò si può dedurre che, a causa del
basso prezzo dell'olio e del caro spese, il proprietario a volte lascia tutto in abbandono
(non cura gli alberi e talvolta non ne raccoglie il frutto).
4. La viticoltura è un settore che richiede tantissimo lavoro (zappatura, concimatura,
potatura, antiparassitari, vendemmia, pigiatura).
Dove il terreno è pianeggiante, non ci sono pietre e c'è anche l'impianto di
irrigazione, i vigneti vengono lavorati con i trattori o con la motozappa se si tratta di
piccoli terreni. In questi casi i vigneti producono bene, ci sono meno spese e rimane un
po' di guadagno.
Non è così invece per i vigneti dove per forza maggiore si deve zappare a mano a causa
del terreno troppo accidentato e per tante altre ragioni. In questi casi costa troppo
curare un vigneto e, per quanto esso produca, non si riprendono le spese. Chi lo coltiva
è solo il proprietario che si fa il vino per sé.
Il vino qui costa 2.500 lire a litro ed è genuino. Molti in passato hanno distrutto
parecchi vigneti mettendo al loro posto piante di agrumi perché allora ci si guadagnava.
Così come per le altre cose, anche in Italia siamo invasi dal vino proveniente da altri
paesi e ciò naturalmente non fa che aggravare la situazione dei produttori interni.
5. La coltura del mandorlo un tempo rendeva un po', ma oggi viene abbandonata perché non
c'è guadagno. Resiste ancora nell'agrigentino. Anche questo prodotto nostrano subisce
forte concorrenza e le industrie dolciarie preferiscono comprare le mandorle dai paesi
esteri perché costano di meno.
A questo punto va detto che l'Unione europea, questo tipo di Europa, ai siciliani,
all'economia agricola siciliana, ha portato solo danno. Non solo in termini di mercato
interno, ma anche in termini di occupazione. Non ha portato benessere ma ha aggravato la
crisi dell'agricoltura regionale che era la risorsa principale. Nella sostanza, la
comunità europea è servita a fare gli interessi dei grandi monopoli dei capitalisti.
Infatti, se il governo italiano non permettesse ai paesi comunitari di esportare i loro
prodotti agricoli in Italia, questi ultimi non permetterebbero ai capitalisti italiani di
esportare da loro le automobili e ogni sorta di merce industriale prodotta in Italia.
Occorre trattare anche l'importante argomento dell'acqua necessaria alla irrigazione delle
coltivazioni che ne hanno bisogno. Questo è un grande problema che pesa sulle spalle
degli agricoltori. Innanzitutto esistono due tipi di erogatori di acqua per irrigare. Uno
è il consorzio di bonifica che attinge l'acqua del fiume Simeto e la vende ai produttori
agricoli della piana di Catania. Costa poco, ma non è sufficiente a coprire le necessità
dei piccoli produttori. Un altro tipo di erogazione è quello dei privati che possiedono i
pozzi e fanno pagare a caro prezzo l'acqua che è necessaria per irrigare le piantagioni
di agrumi, di ortaggi, ecc., aggravando così i problemi dei piccoli produttori. Se invece
questi pozzi dei privati, lo Stato li espropriasse in quanto risorsa naturale del
sottosuolo al pari delle altre materie prime che sono monopolizzate dallo Stato, l'acqua
forse costerebbe di meno.
Circa i lavoratori salariati agricoli, i braccianti, vediamo come si trovano coloro che
lavorano per conto di piccoli e grandi proprietari agricoli. Se la situazione generale in
agricoltura come descritto non è delle migliori, quella dei lavoratori dipendenti non
brilla affatto: per la maggioranza di essi l'unica scelta è quella di lavorare al nero.
Sono costretti ad effettuare 8 ore di lavoro anziché 6 ore e 40 minuti come prescrive il
contratto sindacale. La loro paga è al di sotto di quella prevista dal contratto
suddetto. Lavorano una giornata per la misera paga di 60.000 o 65.000 lire.
I lavoratori più "fortunati'' perché i proprietari sono più facoltosi, vengono
assunti di anno in anno, ma il proprietario non li tiene in regola tutti i periodi
dell'anno. Al massimo per 52 giornate lavorative, per permettere ai lavoratori di fare la
domanda all'Inps e ottenere l'indennità di disoccupazione.
Inoltre il proprietario, al fine di pagare meno contributi, assume i lavoratori con una
qualifica inferiore rispetto alla specializzazione che essi hanno. Data la situazione di
precarietà del lavoro in generale, tanti sono costretti ad accettare queste
"offerte'' dei proprietari.
Purtroppo, le lotte si fanno desiderare. Ogni tanto c'è qualche sciopero, come a gennaio
2000 quello dei braccianti di Paternò, ma non c'è poi lo sviluppo necessario della
battaglia da parte delle organizzazioni sindacali e di chi dovrebbe chiamare alla
mobilitazione.
Qui siamo ancora ai tempi del feudalesimo, ma bisogna avere fiducia nel PMLI e nelle nuove
generazioni. Anche se la nostra lotta è veramente lunga e dura, un giorno trionferanno il
socialismo e il comunismo.
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