GRAMSCI, IL MARXISMO-LENINISMO E LA RIVOLUZIONE SOCIALISTA ITALIANA
Documento
del Comitato centrale del PMLI dell'8 aprile 1987, redatto in occasione del
50° anniversario della scomparsa di Gramsci, il principale teorico italiano del
revisionismo moderno.
Il 27 aprile ricorre il cinquantesimo anniversario della scomparsa di Antonio
Gramsci, e noi marxisti-leninisti italiani sentiamo il dovere di riaffermare il
nostro giudizio sul suo pensiero e la sua opera perché il proletariato, i
rivoluzionari e i militanti che da sempre lottano per il socialismo e il
comunismo prendano piena coscienza delle origini remote e profonde, radici
ideologiche e ragioni politiche, della degenerazione neoliberale del PCI e
colgano quest'occasione per riflettere - loro, ritenuti a ragione i più
combattivi, maturi e avanzati dell'Occidente, che hanno pagato con sudore e
sangue la partecipazione esemplare e generosa alla lotta di classe contro il
capitalismo e per il socialismo - sugli incancellabili crimini storici di cui si
sono macchiati i gruppi dirigenti del PCI sabotando la rivoluzione socialista
italiana, gettando quel partito nel vicolo cieco del liberalismo e infine
rendendolo ai nostri giorni ostaggio e complice del neoduce Craxi e del suo
disegno della seconda repubblica presidenziale e fascista.
Anzitutto ci preme spogliare Gramsci da quell'aureola sacrale che è stata
artatamente apposta alla sua figura quasi per impedirne l'analisi di classe e
per metterla al riparo da ogni critica. Insomma il suo martirio antifascista non
può in alcun caso diventare pretesto o alibi per farci desistere dalla denuncia
delle sue gravi responsabilità quale dirigente e primo teorico revisionista del
PCI. Guai a smarrire la ragione e lasciare che suggestioni emotive offuschino la
ricerca appassionata della verità.
Un padre della patria gradito
al neoduce Craxi
Il lungo e travagliato processo di beatificazione nazionale di Gramsci, iniziato
da Togliatti nel secondo dopoguerra allo scopo di venerare in lui un padre della
patria ancor prima del padre spirituale del riformismo revisionista del PCI, non
poteva avere conclusione più degna di quella proclamata dal neoduce Craxi in
sede di 44° Congresso socialista a Rimini: "Armato di una formidabile
intelligenza critica egli seppe dirigerla anche contro le degenerazioni e le
involuzioni della rivoluzione comunista e dello stalinismo avanzando l'idea di
una 'Egemonia del consenso' quando trionfava la dittatura fondata sulla violenza
e sul terrore''. Antimarxista-leninista insuperabile, il neoduce trova in
Gramsci la sponda ideale per rendere più devastante il suo attacco al
comunismo, lo considera un fulcro su cui far leva per liquidare la scissione di
Livorno, vantare le ragioni della socialdemocrazia e conquistare l'egemonia di
tutte le correnti riformiste, se ne serve per dar credito all'assioma fascista:
comunismo = dittatura violenta e terroristica. E in ciò non incontra davvero
grandi difficoltà, giacché non sono necessarie indebite e truffaldine
appropriazioni che strappino Gramsci dal campo del marxismo-leninismo per
ricondurlo nel campo borghese, ma soltanto di una buona dose di spregiudicata e
abile demagogia che mai gli è mancata.
Non c'è dunque da stupirsi che a rendere solenne e pubblico omaggio a Gramsci
sia proprio il fautore del ``socialismo tricolore'' (riedizione moderna del
nazional- socialismo), tristemente noto per aver coniato massime raccapriccianti
come: "Me ne frego della piazza'', o "Gli italiani non
vogliono il comunismo né per dritto né per storto''. Semmai sia di
consiglio al proletariato, ai rivoluzionari e ai comunisti perché fughino ogni
dubbio e rompano ogni indugio, unendosi a noi, nella critica e denuncia del
pensiero antimarxista-leninista di Gramsci. Ne trarrà giovamento la causa del
socialismo, in Italia troppo a lungo ipotecata dai riformisti e da costoro
destinata a risolversi in un processo di integrazione, e non già di
affrancamento, degli oppressi nei confronti del sistema capitalistico.
Gli è che Gramsci appartiene alla borghesia e non al proletariato, se è vero
che da tempo è diventato il riferimento ideale di ampi settori
dell'intellettualità borghese nel campo della prassi politica ma anche e
soprattutto in innumerevoli discipline teoriche che spaziano dalle scienze e
dottrine politiche alla sociologia, dalla filosofia alla storiografia, tanto
tenui e irrilevanti risultano i suoi legami col marxismo, legami che
condizionano più l'apparenza che il nocciolo del suo pensiero. Mentre ben
altre, mai esplicite e sovente difficili a portare alla luce, sono le
ispirazioni e le metodologie lungo cui corre la sua elaborazione, tratte
ecletticamente da un'impressionante varietà di esponenti intellettuali borghesi
italiani ed europei del tempo: da Antonio Labriola e Benedetto Croce, che
dettero vita alla scuola idealistica italiana, al riformista e meridionalista
antioperaio Salvemini, a Pareto e alla sua teoria della circolazione delle
élite, al liberista Einaudi, a Carlo Rosselli e alla sua idea di ``socialismo
liberale''.
Variante di sinistra
dell'idealismo crociano
La sua è in sostanza una variante di sinistra dell'idealismo crociano,
speculare all'edizione di destra formulata da Gentile. Ed è senza dubbio il
più alto e riuscito tentativo di aggiornare il crocianesimo agli sconvolgimenti
sociali ma anche culturali e politici provocati dall'irrompere sulla scena
italiana e mondiale del proletariato e del socialismo, ripulendo il liberalismo
dalle incrostazioni ottocentesche, liberandolo, cioè, di tesi datate, di idee e
concezioni superate dalla nuova realtà e non più in grado di rispondere
appieno alle mutate esigenze delle classi dirigenti.
A Croce tutto lo unisce: la concezione della "storia come creazione
dello spirito'', il taglio enciclopedico dei suoi studi, la scelta tematica
delle sue ricerche e finanche il vocabolario, a cominciare dal termine "filosofia
della prassi'' preferito alla definizione marxista di materialismo storico e
dialettico. E persino l'astiosa e ricorrente polemica contro il positivismo e il
determinismo di fine Ottocento è un riflesso idealista finalizzato a negare
"la via per uno studio scientifico della storia come processo unitario e
sottoposto a leggi, malgrado tutta la sua formidabile complessità e le sue
contraddizioni'' (Lenin - "Carlo Marx'') piuttosto che a contrastare e
battere la fatalistica e opportunistica attesa di un avvenire socialista non
sorretta da una adeguata azione rivoluzionaria.
Da qui il perdurante successo che incontra Gramsci tra i settori della borghesia
più sensibili e attenti alla riformulazione di un'organica concezione
ideologica dominante all'altezza dei tempi, che svolga ai nostri giorni un ruolo
analogo a quello avuto dal crocianesimo nello Stato liberale. Il suo approdo al
marxismo segue un percorso comune a un grande numero di intellettuali italiani
ed europei a cavallo del Novecento. Di origine idealista o positivista saranno
attratti dal socialismo senza mai mettere in discussione e rigettare fino in
fondo la loro antica visione del mondo né mettersi a scuola del marxismo per
capovolgere e rigenerare le loro idee. Con questa infarinatura di marxismo
pretenderanno di revisionarlo, rifondarlo, svuotarlo della sua essenza
rivoluzionaria nel campo della filosofia e della politica, dell'economia e delle
scienze storiche. Ciascuno lo interpreterà secondo la sua personale visione del
mondo e delle correnti di pensiero di provenienza.
Gramsci, pur militando lungamente nelle file socialiste e comuniste, non ha
imbarazzo a riconoscere a più riprese nei suoi scritti l'autorità e "l'influenza
intellettuale'' di Benedetto Croce. E non perderà mai la sua matrice
idealista, al punto di attaccare esplicitamente il materialismo dello stesso
Marx rivendicando nel '17 quella "continuazione del pensiero idealistico
italiano e tedesco, che in Marx si era contaminato di incrostazioni
positivistiche e naturalistiche''. Mentre si dedicava a questo lavorio
erudito e cervellotico di scardinamento del marxismo, volutamente tiene fuori
dalla sua riflessione i tanti sviluppi apportati dal leninismo al patrimonio
comune del marxismo, eccettuati passi ed echi lontani presenti in alcune sue
opere o documenti di partito, scritti sotto l'influenza esercitata
dall'Internazionale comunista in quei quattro anni che l'avevano visto
rappresentare il PCd'I nel Comitato esecutivo e compiere frequenti viaggi a
Mosca, dove Lenin e i marxisti-leninisti sovietici, seriamente preoccupati
dell'egemonia del gruppo settario di Bordiga, caldeggiavano la formazione di una
linea e una corrente marxista-leninista in grado di diventare maggioritarie nel
partito italiano e quindi di sottrarlo al suo isolamento e all'opportunismo
ultrasinistra.
Ecco perché non c'è da stupirsi che a patrocinare oggi con tanta decisione la
rivalutazione di Gramsci sia appunto la socialdemocrazia tedesca e personalmente
quel Peter Glotz, celebre per aver definito la nostra una "società dei
due terzi'', nella quale le "sinistre'' dovrebbero unicamente battersi
per la ricomposizione sociale, attraverso l'integrazione e non l'emarginazione
del "terzo escluso''. Ebbene, per giustificare questa versione
moderna della conciliazione fra le classi e dell'invalicabilità della società
capitalistica e per smentire le previsioni rivoluzionarie di Marx, costui si
rifà ai rinnegati storici come Bernstein e Kautzky ma soprattutto saccheggia
letteralmente Gramsci, ne esalta la "grande attualità'' e ne
ripropone formule - chiave come "blocco storico'', "egemonia'',
"guerra di posizione''. E lo accredita presso una vastissima platea
socialdemocratica presentandolo come il pensatore politico e sociale di area
revisionista le cui intuizioni e categorie sono applicabili e utilissime nelle
società a capitalismo maturo.
La fortuna di Gramsci
La fortuna di Gramsci comincia a dieci anni dalla sua morte non tanto perché la
sua sterminata elaborazione e il suo pensiero maturo siano rimasti imprigionati
in quei "Quaderni'', scritti nel carcere dove il fascismo lo
condannò a morire, che solo allora videro la luce. Finché fu in vita, nella
sezione socialista torinese, nella redazione torinese dell'"Avanti!'',
nella direzione del "Grido del Popolo'' e dell'"Ordine Nuovo'' e
infine nel gruppo dirigente del PCd'I, Gramsci non rappresentò mai quella
figura politica completa di teorico e organizzatore rivoluzionario di cui il
proletariato italiano aveva bisogno. Non fu certo l'università della lotta di
classe a laurearlo a capo dei comunisti italiani.
Interventista dichiarato allo scoppio della prima guerra mondiale (al punto di
prendere ufficialmente le difese dell'allora direttore dell'"Avanti!''
Mussolini e del suo slogan del neutralismo relativo che preludeva
all'interventismo aperto), nelle gloriose occupazioni delle fabbriche del
biennio rosso '19-'20 rimase a rimorchio degli avvenimenti - prigioniero del
culto della spontaneità e della scissione tra lotte economiche e lotta
politica, ignorante della dottrina marxista-leninista di Stato e rivoluzione,
illuso che una generica democrazia consiliare potesse soppiantare
riformisticamente la democrazia borghese - mentre avrebbe potuto garantire loro
lo sperato sbocco rivoluzionario se solo avesse tradotto e applicato alle
specifiche condizioni italiane la vittoriosa strategia leninista dell'Ottobre
sovietico.
Poi sottovaluta la lotta contro il riformismo e quelle correnti borghesi
all'interno del movimento socialista che avevano tradito i principi
rivoluzionari del marxismo col parlamentarismo, col socialsciovinismo e con la
rinuncia alla rivoluzione e al socialismo: comparsa e non protagonista della
scissione di Livorno, col suo disimpegno finisce per favorire Bordiga (che
continuerà a giudicare favorevolmente in più di un passo dei "Quaderni'')
e l'isolamento politico di massa del PCd'I, nato invece per strappare al PSI di
Turati l'egemonia del proletariato ed ergersi a incrollabile barriera d'acciaio
davanti ai devastanti assalti fascisti, preludio dell'instaurazione della
dittatura terrorista aperta.
Infine gli interminabili anni di carcere che lo vedono ripiegare su se stesso,
ergere un muro di diffidenza, si isola anche fisicamente dagli altri prigionieri
comunisti per aggrovigliarsi e macerarsi in una riflessione individualistica
senza consonanza alcuna con le tematiche più dibattute e attuali in quella
congiuntura politica nel partito e nella III Internazionale. Approfondisce
irreversibilmente le divergenze fino a scegliere di dare clamore e ufficialità
a un dissenso che oramai ritiene vicino alla rottura quando, in una lettera del
'26 dove li definisce dei maestri che "ci hanno qualche volta corretto
molto energicamente e severamente'', si schiererà in difesa di Trotzki e
Zinoviev, accusati a ragione da Stalin e dalla direzione della III
Internazionale di essersi organizzati in frazione antipartito sovvertitrice
della strategia leninista nella costruzione del socialismo in Urss e
sostenitrice di una sciagurata linea internazionale che avrebbe portato allo
sbaraglio i partiti comunisti del mondo intero, e pretenderà da Togliatti,
allora rappresentante del PCd'I a Mosca, che quella lettera sia messa agli atti
dell'Internazionale come per sanzionare l'avvenuta e definitiva rottura.
Si opporrà astiosamente alla "svolta'' del '29 e, in segno di sprezzante
sfida al partito e all'Internazionale, inizierà la stesura dei "Quaderni''
per riaffermare il suo personale valore teorico.
A giustificazione del
revisionismo italiano
L'esaltazione di Gramsci comincia nel secondo dopoguerra perché solo allora
maturano le condizioni interne e internazionali per il progressivo sganciamento
del PCI dalla Russia di Stalin e la sua integrazione nel campo occidentale. Il
camaleontesco Togliatti abbandona ogni tatticismo e al dissenso sfumato e
gesuitico, tramato dietro le quinte, preferisce, sia pure non unendosi
fisicamente a Tito che sferra l'attacco aperto alla dittatura del proletariato,
il pubblico contraddittorio. Decide di uscire allo scoperto e di rivendicare al
suo partito autonomia e indipendenza revisioniste e così ha bisogno di un nume
tutelare per la sua "via italiana al socialismo''. Chi meglio di
Gramsci può metterla al riparo da ogni critica?
Da allora nel nome di Gramsci Togliatti, Longo, Berlinguer e Natta
giustificheranno il ripudio della via dell'Ottobre e uno a uno tutti i passaggi
di linea che porteranno il PCI ad approdare al liberalismo e ad autodefinirsi
"moderno partito riformatore''. Di Gramsci enfatizzeranno ora questo
ora quell'altro aspetto della sua elaborazione, che del resto si presta
magnificamente a tale operazione in virtù di una proverbiale ambiguità,
ricercata e non imposta da fattori esterni, dove il concetto oscuro, contorto,
ermetico, il linguaggio e il periodare involuti sembrano fatti apposta per
risultare inafferrabili e indecifrabili. E ogni volta leggeranno e rileggeranno
i concetti gramsciani di sempre per usarli e presentarli come geniali
anticipazioni delle scelte opportuniste che essi si accingono a compiere.
Lo considerano prima ineguagliabile conoscitore della realtà italiana e
precursore della "diversità'' del PCI, poi lo contrappongono al leninismo
e lo spacciano per colui che aveva saputo sviluppare creativamente il marxismo
nei paesi a capitalismo più evoluto. Le tappe della degenerazione revisionista
vengono bruciate in fretta e con esse le definizioni appioppategli
nell'occasione. Dopo aver relegato il marxismo in soffitta lo preferiscono
dipingere da marxista eretico, tanto imbevuto di democratismo-liberale dal non
essersene mai disgiunto: ne è un esempio la sua dottrina dello Stato che
privilegia il momento del consenso, l'egemonia alla coercizione, e,
nell'identificare e coniugare società politica e società civile là dove
esiste solo l'apparato di dominio di classe, finisce per sopprimere ogni
conflitto antagonistico che porti alla dissoluzione e al superamento della
democrazia borghese. E come potrebbero far mancare tra ``i santi, i poeti e i
navigatori che fanno grande l'Italia'' questo nuovo pensatore politico, sociale
e storico? Questo Machiavelli del ventesimo secolo che prosegue, dal carcere
invece che dall'esilio, l'opera del primo affinché dopo l'unificazione statale
sia garantita all'Italia l'unità nazionale tra proletariato e borghesia. Con
ciò conferendo al PCI pari dignità e pari opportunità governative rispetto a
ogn'altro partito storico che siede in parlamento.
Bisogna dunque risalire a Gramsci per capire perché "oggi sul piano
ideologico è già avvenuta - citiamo l'editoriale del compagno Giovanni Scuderi
scritto sul Bolscevico in occasione del 10° anniversario del PMLI - la
ricongiunzione tra gli antichi e i moderni riformisti, ossia i dirigenti del
PSI, PSDI e PCI, come preludio della riunificazione organizzativa caldeggiata
nel PCI in particolare da Lama e Napolitano''. Bisogna risalire a Gramsci se
vogliamo estirpare le radici del revisionismo italiano, questa variante del
revisionismo moderno così insidiosa perché frutto di una lunga e complessa
opera di demolizione del marxismo in Italia, iniziata già nel secolo scorso e
proseguita ininterrottamente fino ai giorni nostri, che si è avvalsa dei più
illustri rappresentanti della scienza e della filosofia borghesi travestiti da
marxisti e infiltrati in seno al movimento operaio.
Ridotto a un guscio vuoto
Bisogna risalire a Gramsci per individuare quel "punto di partenza''
e quel "metodo'', sono parole usate da Natta nell'intervista che ha
avviato le celebrazioni revisioniste del cinquantenario, che hanno consentito al
PCI di abbandonare anche nominalmente il campo della rivoluzione e di collocarsi
a tutti gli effetti nella socialdemocrazia europea. E perché infine non ci si
lasci ingannare, oggi che i revisionisti non fanno più mistero della loro
conversione al neoliberismo, da talune sue formulazioni che, estrapolate dal
contesto, rischiano di apparire formalmente corrette e contrapposte a quanto
essi vanno sostenendo. Del resto è destino fatale che i partiti opportunisti
siano condannati al purgatorio, dove espiare nel pentimento le colpe del
passato, per essere dalla borghesia ritenuti affidabili.
Le formulazioni e tesi gramsciane appaiono al partito di Natta imbarazzanti e
superate dagli avvenimenti? Non importa, esso se ne sbarazza senza pietà e
senza rimpianti le butta a mare benché lo abbiano accompagnato per tanti anni.
E di Gramsci nelle loro mani non è rimasto ormai che un guscio vuoto.
"E' il suo metodo - raccomanda il segretario del PCI nella succitata
intervista - che vale: il prendere a base la realtà effettuale e il lottare
contro ogni dottrinarismo''. Ed è appunto quel metodo revisionista che noi
marxisti-leninisti mettiamo sotto accusa perché si contrappone al metodo
elaborato, insegnatoci e applicato con successo dai fondatori del socialismo
scientifico, Marx ed Engels; quel metodo revisionista noi lo rigettiamo perché
al materialismo sostituisce l'idealismo e alla dialettica la metafisica. Marx
definiva la sua dottrina "critica e rivoluzionaria nella sua essenza''
ma non altrettanto si può dire del metodo gramsciano: dogmatico e riverente
verso l'ideologia borghese, critico a senso unico, esclusivamente nei confronti
della dottrina marxista-leninista; e poi gradualista, giacché rimastica
attraverso i concetti di "egemonia'' e di "guerra di
posizione'' le vecchie tesi della II Internazionale secondo cui il
proletariato deve prima diventare maggioranza e assicurarsi la conquista degli
intellettuali e solo dopo sperare di conquistare il potere.
Un pensiero può dirsi di avanguardia quando svolge un'insostituibile funzione
organizzatrice, attivizzatrice e trasformatrice non appena conquista la classe
di avanguardia; ebbene il bilancio stesso della storia del PCI sta a dimostrare
il fallimento del pensiero di Gramsci, dimostra che quel pensiero, ispiratore
del gruppo dirigente revisionista, ha semmai svolto una funzione di
retroguardia, ha condannato le masse alla passività, le ha frenate nella lotta
di classe, le ha ingannate illudendole che le differenze, le specificità e i
tratti caratteristici nazionali imponessero una strategia per la conquista del
socialismo antitetica alla via dell'Ottobre e che non occorresse in Italia
battersi per la dittatura del proletariato.
Invece di applicare coerentemente il marxismo-leninismo alle condizioni
originali della situazione italiana, Gramsci enfatizza e stravolge tali
originalità per smentire la teoria proletaria rivoluzionaria; invece di
studiare e descrivere con un'analisi marxista-leninista la fisionomia della
società italiana, le sue istituzioni politiche e i rapporti di produzione, la
sua storia alla luce dello sviluppo delle forze produttive e della lotta di
classe, della vita materiale e della vita spirituale, si abbandona a
fantasticherie soggettive, unilaterali e libresche alimentate da astratti
principi di origine idealista e liberal-democratica e dalle irresistibili
suggestioni esercitate su di lui da molti intellettuali e correnti di pensiero
del tempo.
Una concezione borghese dello
Stato
Come avvertiva Lenin, "difficilmente si trova un'altra questione così
confusa premeditatamente e non premeditatamente dai rappresentanti della
scienza, della filosofia, della giurisprudenza, dell'economia politica e del
giornalismo borghesi come la questione dello Stato'' (Lenin - ``Sullo Stato''),
tanto essa è strettamente legata agli interessi delle classi sfruttatrici e dal
momento che l'atteggiamento che si assume verso lo Stato è un'infallibile
cartina di tornasole per distinguere il rivoluzionario dal banale riformista.
Non c'è dubbio che Gramsci abbia contribuito non poco a tale confusione, anzi
muove proprio dalla confusione seminata abilmente su questo tema per contestare
l'universalità della via dell'Ottobre contrapponendogli il gradualismo
riformista.
A suo dire in Occidente lo Stato non è tutto, non è contrapposto alla società
civile bensì la assorbe in sé. Si presenta piuttosto come "una trincea
avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e casematte'',
pertanto alla rivoluzione socialista intesa come assalto e conquista della
macchina statale, da lui battezzata "guerra di movimento'' occorre
sostituire la "guerra di posizione o di assedio'', per forza di cose
snervante, interminabile, gradualista, giacché pretende che sia conquistato un
caposaldo alla volta della robusta catena di "superstrutture''
dominanti, pacifica e parlamentarista, giacché presuppone di svolgersi
nell'ambito delle istituzioni e non sul terreno tradizionale della lotta di
classe, più culturale, morale e ideale che politica e sociale, giacché mette
in discussione prevalentemente il dominio ideologico.
Il concetto gramsciano di egemonia è il corollario della sua dottrina borghese
sullo Stato: "il fatto che lo Stato-governo, concepito come una forza
autonoma, faccia rifluire il suo prestigio sulla classe che ne è il fondamento,
è dei più importanti praticamente e teoricamente e merita di essere analizzato
in tutta la sua estensione se si vuole avere un concetto più realistico dello
Stato stesso. (...) Questa classe, spesso, come fatto economico (e tale è
essenzialmente ogni classe) non godrebbe di nessun prestigio intellettuale e
morale, cioè sarebbe incapace di esercitare un'egemonia, quindi di fondare uno
Stato''. Dopo aver capovolto la relazione di dipendenza tra Stato ed
egemonia, lo Stato esisterebbe in quanto e nella misura in cui la classe
dominante esercita l'egemonia, non gli è difficile dimostrare che il
proletariato si affermerà come classe dirigente "nazionale'' solo
dopo aver conteso e strappato alla borghesia la "direzione intellettuale
e morale'' della società. Tutto riduce a una battaglia culturale, ideale,
morale per l'"affermazione di una superiore capacità di interpretazione
della storia e di soluzione dei problemi che essa pone'' (Tortorella). A una
riforma di pensiero (l'idealismo crociano finisce per mettere lo zampino
dappertutto) che veda come protagonisti gli intellettuali e renda superflua, o
comunque marginale, secondaria, la materialità del processo rivoluzionario, la
lotta di classe, nelle sue tre accezioni, dialetticamente legate l'una
all'altra, di lotta economica, lotta politica e lotta ideologica. Interpretata
prevalentemente dal punto di vista etico-politico, la storia diventa ai suoi
occhi una contesa tra scuole e correnti di pensiero dove agli intellettuali sono
assegnati una funzione, una collocazione e un rilievo fondamentali che invece
spettano secondo il marxismo-leninismo al proletariato.
Da un siffatto guazzabuglio teorico Gramsci, come il più classico dei
prestigiatori, estrae il suo coniglio, il cosiddetto "blocco storico'',
inteso come entità trascendente, "complessa e discorde'', che
racchiude in sé la struttura, l'insieme dei rapporti sociali di produzione, e
le sovrastrutture politiche, giuridiche, culturali. Non senza confessare di
essere in debito di riconoscenza verso Croce per aver questi "energicamente
attirato l'attenzione allo studio dei fatti di cultura e di pensiero come
elementi di dominio politico, alla funzione dei grandi intellettuali nella vita
degli Stati, al momento dell'egemonia e del consenso come forme necessarie del
blocco storico completo''. Ecco dunque svelata l'anima
antimarxista-leninista del pensiero di Gramsci.
Ci vogliono il Partito e la
teoria rivoluzionari
Dalla azione concreta e dalla dispersiva, confusa, criptica riflessione teorica
di Gramsci il proletariato e la rivoluzione socialista italiana non hanno tratto
alcun giovamento; il primo destinato a non prendere coscienza di se stesso e
della sua missione storica di creatore della società socialista e a vedere
fallire uno dopo l'altro i suoi generosi tentativi di assalto contro il
capitale, la seconda privata di una strategia e di una tattica rivoluzionarie
che potessero illuminare il suo cammino fino alla vittoria. Ambedue vittime del
gruppo dirigente revisionista del PCI che proprio ispirandosi a Gramsci ha
rinunciato alla lotta di classe per la conquista del potere politico e si è
ridotto ad apparato elettorale che esaurisce la sua azione nel parlamentarismo;
non ha mai rappresentato l'avanguardia rivoluzionaria del proletariato, né ha
educato l'intera classe nello spirito della lotta rivoluzionaria per il potere;
ha tradito e non tradotto alla realtà italiana la via universale della
Rivoluzione d'Ottobre; ha ricercato la sottomissione e non l'egemonia del
proletariato evitando nella sua lunga storia di preparare, mobilitare,
rinsaldare i legami di alleanza tra le classi del fronte unito intorno
all'obiettivo del socialismo; ha puntato alla istituzionalizzazione sua e delle
sue organizzazioni di massa nella democrazia borghese invece di modellarle sulla
difesa degli interessi immediati e a lungo termine delle masse popolari e di
temprarle e indirizzarle verso la dittatura del proletariato.
Da quel "punto di partenza'' che è Gramsci, applicando il suo
"metodo'', il PCI ne ha fatta di strada, ma nella direzione sperata
dalla borghesia e non dal proletariato. Nato per fare la rivoluzione e
conquistare il socialismo ha finito per identificarsi col sistema capitalistico
fino al punto di favorire l'avvento della seconda repubblica presidenzialista e
fascista per cui si batte il neoduce Craxi.
Se il proletariato e le masse popolari italiane vogliono l'emancipazione e il
socialismo devono guardare al PMLI, in esso riversare le loro migliori energie,
insieme a esso marciare sulla via dell'Ottobre. Devono armarsi del
marxismo-leninismo-pensiero di Mao, studiare e applicare questa teoria
rivoluzionaria, la sola che dopo averle disintossicate dal revisionismo può
renderle consapevoli e padrone del loro destino, il solo modo per combattere e
arrestare il grave processo di deideologizzazione, decomunistizzazione e
socialdemocratizzazione delle masse.
Come ha spiegato il compagno Giovanni Scuderi nel Rapporto al 2° Congresso
nazionale del PMLI: "Il PMLI è l'espressione politica- organizzativa più
avanzata dell'esperienza che il proletariato italiano ha accumulato e maturato
lungo tutta la sua storia, ma non rappresenta una continuità rispetto al PCI
tanto meno al PSI. Anzi esso costituisce la rottura netta e irreversibile, e la
contrapposizione globale nei confronti di questi due partiti che alla prova dei
fatti hanno dimostrato di essere dei partiti borghesi nell'ideologia, nella
mentalità, nei programmi, nell'organizzazione, nella pratica sociale e nello
stile di lavoro. Assomigliare in qualcosa ad essi vorrebbe dire essere in niente
differenti da un partito borghese, se non nella forma e nella tutela di una
particolare corrente o gruppo capitalistico.
La fondazione del PMLI ha aperto storicamente la terza fase della storia del
movimento operaio italiano organizzato, quella del trionfo del
marxismo-leninismo-pensiero di Mao nella classe operaia. La prima fase, che va
dal 1892 al 1920, è stata dominata dalla socialdemocrazia predicata dal PSI; la
seconda fase, che è iniziata il 21 gennaio 1921, è stata ed è dominata dal
revisionismo predicato dal PCI.
Il rafforzamento e lo sviluppo del nostro Partito consentiranno che la terza
fase si realizzi concretamente nella pratica, ponendo così fine al predominio
dell'ideologia borghese e socialdemocratica del revisionismo''.
Il Comitato centrale del PMLI
Firenze, 8 aprile 1987
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