Al Congresso di Rimini il leader arcirevisionista del PdCI appiattisce il partito sul governo Prodi (Biografia dell'imbroglione revisionista Diliberto)
Diliberto: facciamo subito una sinistra senza aggettivi
Bertinotti, Mussi e Salvi d'accordo. Ai giovani chiede di "riaggiornare l'analisi, proporre nuove soluzioni"
Mantenere il nome comunista serve solo per non far scappare i sinceri comunisti dal PdCI

Con la scelta di tenere il 4° Congresso del PdCI a Rimini dal 27 al 29 aprile scorsi, subito dopo il congresso di scioglimento dei DS, Oliviero Diliberto ha ammesso di aver voluto dare anche un significato simbolico all'evento, per sottolineare che venne in quella città che nel 1991 venne sciolto il PCI, e che già allora egli e alcuni altri che non seguirono Achille Occhetto proposero inascoltati una "confederazione della sinistra" che non si riconosceva nel nascente PDS. Una proposta che il segretario del PdCI ha sempre continuato a sostenere e che ora ritiene sia più che mai in auge, tanto da farne il tema conduttore dell'assise riminese.
Non senza prima, però, aver ribadito in apertura della relazione introduttiva quello che è il caposaldo fondamentale a cui il suo partito è tenacemente aggrappato come una mignatta e che, come egli stesso e la Risoluzione politica finale hanno sottolineato a chiare lettere, costituisce l'essenza della politica del PdCI fin dall'atto della sua fondazione: il sostegno senza se e senza ma al governo Prodi, sul quale l'arcirevisionista Diliberto riconferma il totale appiattimento del suo partito. "Noi vogliamo bene a questo governo, l'ho detto e lo ripeto. Cerchiamo di tenerlo lontano dalle insidie molteplici di una coalizione così larga e spesso non omogenea. Lavoriamo a questo fine. E lavoriamo sul serio per il bene del centro-sinistra", ha sentenziato infatti Diliberto davanti al compiaciuto Prodi, invitato d'onore in sala, autocandidando il PdCI a sentinella fedele del governo fino alla morte.
Perché tanta gratuita dedizione al governo del dittatore democristiano? Perché, secondo l'imbroglione neorevisionista, "la democrazia italiana è fragile", il Paese è spaccato a metà e il governo Prodi è "l'equilibrio più avanzato possibile negli attuali rapporti di forza". E' vero che "non tutto ci convince" della sua politica, ammette ipocritamente Diliberto citando (ma accuratamente di sfuggita) Vicenza, l'Afghanistan, la Legge finanziaria "che ha premiato pressoché solo le imprese", il precariato "autentica piaga del secolo", l'ecatombe dei morti sul lavoro, l'assenza di interventi a favore di salari e pensioni. Ma egli vede ottimisticamente anche il bicchiere mezzo pieno, e così può tranquillamente concludere che "viviamo in un'Italia migliore di un anno fa"; che "la politica estera italiana ha ripreso un cammino tradizionale (sic), di pace e di cooperazione internazionale"; che "siamo alleati degli Usa ma non ne siamo sudditi"; che ora siamo "equivicini" a Israele e Palestina e felicemente presenti in Libano; che abbiamo ripreso una "convinta politica europeista, abbandonata negli anni del governo precedente, unica garanzia possibile per un efficace ruolo del vecchio Continente in un mondo multipolare, quale noi vorremmo", e così via esaltando e magnificando.
Insomma, per Diliberto, "tutto va bene madama la marchesa". A patto che il governo Prodi non dia troppo ascolto alle pretese confindustriali e vaticane di emarginare la "sinistra radicale" e che cerchi di "riconquistare il cuore del nostro popolo" ponendosi due "missioni": difesa di salari e pensioni più basse e massicci investimenti nella scuola, università, ricerca e cultura. Peccato che nell'agenda del suo governo ci sia invece l'innalzamento dell'età pensionabile e il proseguimento della politica di smantellamento della scuola pubblica e della sua privatizzazione. Ma egli ha visto un altro film e tira dritto imperterrito con incrollabile fiducia, rinviando ogni giudizio a quando i giochi saranno conclusi e non si potrà più tornare indietro: "Il governo Prodi deve fare riforme. Giusto. Vedremo quali e a favore di chi", conclude disinvoltamente il leader del PdCI.

La "sinistra senza aggettivi" di Diliberto
Sbrigata così piattamente e servilmente la pratica governativa, il falso comunista si è dedicato al piatto forte del congresso, e cioè quella che lui chiama l'"unità di tutti i soggetti della sinistra". Un problema che egli ha definito urgente, "pena la marginalizzazione della sinistra italiana, il suo ulteriore sgretolamento, la perdita di peso politico", pensando evidentemente alla nascita del Partito democratico e alla prospettiva di un accordo tra la destra e la "sinistra" borghesi per una legge elettorale maggioritaria che, in nome della governabilità del regime neofascista, cancelli i partiti minori con la soglia di sbarramento e li costringa a farsi risucchiare dai partiti maggiori.
Diliberto non ha perciò esitato a fare propria e rilanciare la proposta del "cantiere" della sinistra per fare "massa critica" avanzata da Bertinotti, il quale era presente in sala come invitato d'onore ed è stato accolto trionfalmente dai congressisti, come a sancire la ricucitura definitiva dello strappo del 1998. Una ricucitura resa ancor più emblematica dall'uscita di scena, ancor prima del congresso e peraltro su posizioni ancor più di destra, dell'arcirevisionista e riformista Cossutta, che con Diliberto fu l'artefice della scissione nel PRC che portò alla nascita del PdCI per salvare il primo governo Prodi.
Diliberto ha riproposto la forma confederale, ma senza preclusioni verso altre ipotesi, per il raggiungimento di questa unità di tutto ciò che si muove a sinistra del PD, ma anche oltre, che egli chiama "una sinistra senza aggettivi", che potrebbe includere perfino lo SDI di Boselli: "Ogni aggettivo presuppone un paletto. E un paletto preclude, esclude, non include. E noi vorremmo includere", ha spiegato infatti il leader del PdCI. Un invito, il suo, subito raccolto non solo da Bertinotti, ma anche dai leader dell'ex correntone DS in procinto di tenere a battesimo insieme ad Angius la nuova formazione Sinistra democratica: "Diliberto ha ragione sulla sinistra senza aggettivi. Qualcosa di nuovo può nascere", ha convenuto Fabio Mussi, precisando che però "si apre un processo lungo". Mentre Cesare Salvi, intervenuto al congresso di Rimini, ha entusiasmato la platea proponendo di costruire il "nuovo soggetto unitario" in tempi rapidi, pensando già a liste elettorali unitarie e mettendo insieme un grande gruppo unico parlamentare con SD, PdCI e PRC.
In una successiva intervista a "Liberazione" del 3 maggio, Diliberto ha chiarito ulteriormente quale dovrebbe essere la collocazione e la funzione di questo "nuovo soggetto" a sinistra del PD: nient'altro che la sua copertura a sinistra, un nuovo inganno per trattenere i militanti e i voti di sinistra nel pantano del riformismo, dell'elettoralismo e del parlamentarismo. Infatti il rapporto con il PD sarà, ha detto il leader neorevisionista, "di alleanza, nella diversità. Vogliamo governare e non essere opposizione, vogliamo strappare risultati per quei ceti che abbiamo l'ambizione di rappresentare. E si può essere maggioranza con il Partito democratico". E poi ha aggiunto: "Io, Giordano e Mussi, ma anche Angius e Salvi, fino a qualche anno fa stavamo tutti quanti nello stesso partito. Senza alcuna nostalgia per il passato, si può dire che è una sorta di ricongiungimento familiare".

Nuova "identità comunista" cercasi
Naturalmente, per blandire la platea, Diliberto ha spergiurato di voler partecipare "da comunisti" a tale processo di aggregazione dei detriti lasciati dalla liquidazione del PCI revisionista e dei suoi derivati, cioè conservando le proprie insegne e in particolare la falce e martello rinnegata anche da Cossutta. Ma è un espediente ipocrita da falso comunista, un inganno per non far scappare i sinceri comunisti dal PdCI e impedire che si mettano in cerca di un autentico partito marxista-leninista, che in Italia esiste già ed è il PMLI. Tant'è vero che nel più riservato clima del Comitato centrale tenutosi a marzo, a proposito della "identità" del PdCI, Diliberto non aveva esitato ad affermare: "Noi diciamo la 'diversità comunista' e la 'identità comunista'. Dico un'eresia: io non so più qual è, ma non lo sa più nessuno nel mondo qual è l'identità comunista".
E infatti, in congresso, è a questa sua significativa ammissione che si è riallacciato, quando ha detto che i giovani del PdCI nati dopo la caduta del muro di Berlino "saranno inevitabilmente dei comunisti diversi da noi: ed è un bene, perché noi, la nostra generazione, è figlia di una sconfitta". E quando, subito dopo, ha aggiunto: "Non ci sono più modelli, rivoluzioni esemplari, punti di riferimento certi, approdi sicuri. Siamo, tutti, in mare aperto e la navigazione è ricca di insidie, ben più che nel passato. La risposta non sta in vecchie formule, tanto meno nella stanca ripetizione di quelle che proprio Gramsci definiva, sprezzantemente, le 'frasi scarlatte'. Così come Togliatti, che affermava - con il consueto sarcasmo - che la rivoluzione perde di senso nel momento in cui si inizia a scriverla con la 'r' maiuscola".
Ai giovani, secondo l'insegnamento che il falso comunista Diliberto estrae dai suoi maestri revisionisti e riformisti, non resta dunque che "reinventarsi da sé tutte le categorie della conoscenza, riaggiornare l'analisi, proporre nuove soluzioni". E indica loro in quelle di tipo interclassista, pacifista e idealista come quella sintetizzata dallo slogan dei no global "un altro mondo è possibile", il nuovo orizzonte ideologico e politico a cui devono guardare. Il che equivale ad innalzare la falce e martello a parole, ma affossarla nei fatti, delegando questo sporco lavoro ai giovani meno coscienti del suo partito.

9 maggio 2007